Calabria: la Riviera dei Gelsomini
Tra Punta Stilo e Capo Spartivento si stende un tratto di costa calabrese che guarda al mar Jonio, con le spalle coperte da colline argillo-marmose e verdi terrazze ricche di agrumeti e ulivi che degradano fino al cuore montano costituito dal Parco Nazionale dell'Aspromonte. E' una striscia di terra che comprende 42 comuni, battezzata con il nome di un fiore, tipico del paesaggio dell'alto Jonio calabrese, eppure poco conosciuta al turismo di massa, certo avvezzo a comodità qui ancora per lo più assenti. Ma chi decide di approdare nella Riviera lo fa, o almeno dovrebbe, aspirando a un tipo di vacanza semplice, addirittura rurale, che confida nella bellezza di luoghi ancora intatti, intrisi di storia, leggenda e tradizioni vivissime.
Testo e foto a cura della redazione
L'antica Magna Grecia è un fazzoletto di terra che carezza lo spirito del viaggiatore interessato ad immergersi in una realtà lontana dal clamore estivo di centri balneari iper affollati, apprezzando una natura premiata più volte con riconoscimenti ufficiali (Bandiera Blu, “La più bella sei tu” di Legambiente ad esempio), che ha nell'azzurro di un mitologico limpido mare e nelle interminabili distese bianco-gialle di sabbia vellutata, inconsistente, così desertica da sembrare Africa, le tonalità predominanti.
In questo Sud del Sud d'Italia dove fiorì la più grande civiltà dell'era antica, si concentrano vivide testimonianze del passato legato alle origine greco-romane: dagli scavi archeologici di Locri Epizephiri e di Kauolon (Caulonia) nei pressi di Monasterace Marina, alla villa romana di Casignana, frazione di Bianco, ai ben più famosi bronzi di Riace.
E di questo concentrato di storia ce ne parlano i molti resti di città fantasma, ma anche la voce narrante di vecchi abitanti dei borghi cosiddetti “grecanici”, di quelli bizantini e delle popolazioni arbëresche, con i loro ricordi sconnessi e la durezza della vita scolpita a pelle sui volti raggrinziti dal tempo e dall'arsura del clima. Scambiare due parole, benché spesso incomprensibili, con uno di questi “saggi” del paese è forse la più grande ricchezza da portare a casa. Insieme, naturalmente, a una invidiabile tintarella da tropici e alle tante tipicità enogastronomiche che è in grado di offrire un territorio baciato dal sole, cullato dal mare e protetto dai monti.
Ampi balconi scoscesi che guardano il mare. Il forte contrasto restituito a questo estremo lembo meridionale della penisola dal massiccio dell'Aspromonte, spiega le infinite suggestioni che molti poeti e scrittori trovarono per descrivere le ardite architetture naturali della Calabria jonica. Secondo Guido Piovene, un dio capriccioso avrebbe dato origine alla Calabria creando diversi mondi e divertendosi poi a frantumarli e a mescolarli insieme. E lo stesso si potrebbe dire per il retroterra culturale che avvolge di certa nobiltà arcaica lo spirito delle genti di qui, forti di una identità permeata dal passaggio di diverse popolazioni (italici, greci, romani, bruzi).
E se i pescatori che intagliano le reti al calar della sera sulla battigia, appoggiati alla loro barchetta dipinta, scandiscono la ritualità dei paesi distesi lungo la costa, i contadini che pascolano tra i sentieri dell'Aspromonte i loro greggi di pecore e capre, fermano il tempo dei borghi interni arroccati su un mondo così lento da sembrare persino finto. La Costa dei Gelsomini, dunque, non è solo quel pittoresco succedersi di piccoli centri balneari odor di bergamotto e zagara con la ferrovia che segue parallela la linea del mare da una parte, e la statale 106 Jonica dall'altra.
Con piccole deviazioni spesso tortuose si possono raggiungere i villaggi di un entroterra punteggiato dalle tipiche “fiumare” (ampi greti riempiti di ghiaia e ciottoli), ruderi di castelli e santuari ancora meta di pellegrinaggi, paesi fantasma e piccole città-gioiello, che spiccano discrete per la loro rilevanza storica ed artistica. Sono ben 42 i gioielli della Costa, tra tutti citiamo Gerace e Stilo, la città del filosofo Tommaso Campanella (1568-1639) famosa per la sua “Cattolica”, il più illustre esempio di architettura bizantina in Calabria: un capolavoro del X secolo interamente in mattoni con tre absidi e cinque cupolette dai tamburi cilindrici, ancora miracolosamente intatto.
Bianco
Un tempo il cartello della strada statale 106 – che da Taranto porta fino a Reggio Calabria – salutava l'ingresso al paese con la scritta “Benvenuti a Bianco il bello del mare”. Oggi il “bello del mare” ha lasciato il posto alla “città del vino”, con buona pace degli astemi. Il vino, diciamolo subito, è quel nettare degli dei che ha nome Vino Greco e che è stato riconosciuto Doc nel 1980.
La statale 106 è l'arteria del paese, sbocco nevrotico e anarchico del traffico – disordinato e disorientante, specie durante l'estate quando il paese da 4000 anime si riempie per lo più di amici e parenti dei parenti, gente dei borghi limitrofi, superstiti all'esterofilia e devoti alla Madonna di Pugliano, la Santa Patrona, venerata con grandi festeggiamenti dal 13 al 15 agosto. Da questa strada si diramano le vie che conducono nella parte alta del paese e quella principale è un lungo stradone alberato che, da un certo punto in poi, si impenna in salita con una pendenza considerevole.
Proprio in cima alla salita si trova il Duomo di “Tutti i Santi”, la chiesa principale dove è collocata la preziosa statua in alabastro di Santa Caterina d'Alessandria d'Egitto (1530). Qui dall'alto, potendo salire su una delle terrazze delle case rimaste in questa parte scomoda di paese, si ha una visione privilegiata del profilo urbanistico e del mare. Un colpo d'occhio illuminante quest'ultimo – specie verso le sette/otto di sera – che ci piace ricollegare all'essenza etimologica del nome del paese, a dispetto della versione ufficiale, riportata da tutte le guide, associata al colore delle colline cretacee che circondano il territorio. La linea del cielo è esattamente fusa con quella del mare, in un unico colore bianco vagamente rosa che sembra uscito dalla tavolozza di un pittore.
Il mare racchiude l'anima dei paesi di mare. Il mare di Bianco è un camaleonte timido e sfrontato che assorbe colorazioni di volta in volta diverse eppure mai casuali. Come quando l'acqua, al sorgere del sole si tinge di rosso – un rosso color di vino che ai più sportivi fa pensare alla tinta della maglia della Reggina – e alla sera, nelle notti di luna piena, diventa argento, bagliore diffuso sul manto nero ondulato della notte. Di questo mare i pescatori raccontano mirabilie, a cominciare da quel miracolo del quadro della Madonna di Pugliano che proprio dalle acque joniche sarebbe venuto, scampando alle razzie dei Turchi; quei pescatori dalla pelle arsa dal sole, sparsi nelle vecchie casette – oggi in gran parte ristrutturate – sul lungomare a ridosso della spiaggia, dove la battigia è solcata da barche e barchette siglate con date, nomi di donne, madonne e santi.
Ed è proprio qui, ai bordi del mare, che storicamente è avvenuta la contaminazione della vecchia cultura contadina con la nuova marinara, costituita da immigrati calabro-siculi, quando in seguito al secondo terremoto del 1908 (il primo fu nel 1783), l'antico borgo originario di Bianco Vecchio venne trasferito definitivamente nel Bianco Novo, centro abitato sorto nei pressi della spiaggia. Oggi Bianco è il paese che, durante l'estate, accoglie il maggior numero di turisti stranieri e di visitatori provenienti dalle località limitrofe e questo grazie al primato che, ormai da decenni, ha conquistato l'“estate bianchese”. Merito, soprattutto, dello spettacolo pirotecnico di Ferragosto (i famosi “fuochi dell'una” di notte) con cui la cittadina calabrese ha partecipato a competizioni di carattere internazionale.
La Strada del Vino e dei Sapori della Locride
La presenza della Doc Greco di Bianco contrassegna il territorio noto come la Strada del Vino e dei Sapori della Locride, un'area che congiunge un lungo tratto della costa jonica ai paesi interni inerpicati a ridosso dell'Aspromonte. A fare compagnia al liquoroso Greco di Bianco – o “Grecanico” che dir si voglia – vi è un altro passito, il Mantonico di Bianco. La leggenda farebbe risalire a un colono greco l'introduzione nel territorio calabrese dei primi tralci di vite, al tempo dello sbarco dei Locresi presso il promontorio Zefiro (VII sec. a.C.), oggi Capo Bruzzano (quel tratto di litorale che Legambiente ha inserito nella top ten delle 10 spiagge più belle d'Italia). In ogni caso i vitigni introdotti con la colonizzazione ellenica si adattarono all'ambiente di coltivazione talmente bene da potersi considerare “autoctoni”.
La gemma enologica della Locride vanta un colore giallo tendente al dorato e riflessi ambrati e non mancherà mai a fine pasto nelle tavole imbandite dei calabresi della provincia reggina, soprattutto durante i festeggiamenti di Ferragosto. A sposare il sapore di questo “nettare degli dei” – come viene definito il Greco di Bianco per antonomasia – intervengono gustose prelibatezze di pasticceria come lo stomatico, i petrali, i torroni con copertura al cioccolato sia nero che bianco, i dolci di ricotta e i raffinati dolci di marzapane.
Gerace
Uno sparviero (hierax, in greco) avrebbe guidato alcuni profughi locresi fino ai piedi di un'alta e solitaria rupe. Così la leggenda ci informa della nascita di Gerace, una preziosa città a sorpresa – raggiungibile con una deviazione di circa 8 chilometri in salita della statale 106 da Locri – che dall'alto dei suoi 500 metri regala spettacolari scenografie da qualunque parte la si osservi. Nonostante la sua fama e l'incontrastata bellezza abbiano reso questo millenario centro difensivo una località turistica a tutti gli effetti, è una sensazione di quieta armonia a predominare tra le vie del borgo, diviso in tre nuclei urbani: la città alta in cima al colle, il Borgo maggiore e il Borghetto.
Un compatto nucleo di edifici fuori dalle mura cittadine costituisce il Borgo (maggiore), il regno dei contadini e dei vasai chini sulle loro tavole di terracotta a tramandare una tradizione artigiana che ancora li vede lavorare in botteghe scavate nel tufo. In cammino tra le viuzze di stampo medioevale non si tarderà a imbattersi in qualcuna delle 79 chiese che appartennero al passato fiorente della città ai tempi della dominazione normanna. Nonostante di chiese ne siano rimaste appena una decina, le testimonianze antiche permeano tutt'ora l'ambiente di Gerace la cui stessa architettura urbana lascia con il fiato sospeso.
Tra il quartiere popolare detto Borghetto e la città alta nobilmente adagiata sulla cima pianeggiante della rupe, si possono ammirare scorci sorprendenti; non sorprende affatto, invece, l'insediamento di artisti, pittori, fotografi e registi in questa sorta di laboratorio a cielo aperto che è il paesaggio quasi religioso di Gerace, rimasto immune da ogni qualsivoglia storpiatura moderna. Un addensamento di casette bianche disposte a schiera come un presepe è quello che si offre alla vista dall'alto del Belvedere, lungo la passeggiata panoramica introdotta dalle porte urbiche delle Bombarde.
Il cuore della città alta è piazza del Tocco, il “salotto” di Gerace coreografato dai palazzi delle nobili famiglie cittadine e dalla sede del Municipio (il palazzo del Tocco). Bisogna percorrere via Zaleuco per salire a piazza Vittorio Emanuele, detta piazza della Tribuna, e riconoscere la maestosità delle absidi della Cattedrale di Gerace, una delle più importanti chiese di tutta la Calabria. Attraversando il barocco arco dei Vescovi ci si immette lungo il fianco settentrionale della chiesa che introduce al portale d'ingresso. L'impianto bizantino del tempio si fonde con elementi caratteristici delle cattedrali normanne, visibili soprattutto nel transetto sporgente e nella disposizione delle absidi semicircolari.
Nell'interno vige una sobrietà basilicale tuttavia solenne e severa, contraddistinta dalla separazione dello spazio in tre navate mediante fusti e capitelli antichi in parte provenienti dalla rovine di Locri. L'altare maggiore in marmi policromi restituisce uno sfarzo di stampo settecentesco al pari dei grandi candelabri in bronzo. Incute quasi soggezione scendere nel silenzio e nella penombra della Cripta, il nucleo più antico della Cattedrale che ne testimonia l'origine pagana. La cappella della Madonna dell'Itria è il nucleo della chiesa inferiore, piccolo ambiente ricavato nel 1261 da una chiesa rupestre, decorato con marmi policromi, e pavimentato con maioliche geracesi del XVII secolo.
E' attorno a questo maestoso tempio religioso che si addensano quasi tutte le altre rimanenti chiese di Gerace. Percorrendo le vie di questa parte nobile di città si possono osservare i numerosi elementi architettonici del passato, come “bifore” e logge rinascimentali, che impreziosiscono la tavolozza di questo quadro d'autore. Dalla Cattedrale, imboccando via Caduti sul Lavoro, si giunge a una piazza dove si trovano ben tre chiese (Largo Tre Chiese). La maggiore è la chiesa di San Francesco d'Assisi (1252) dominata da purissime linee gotiche e da un massiccio portale che catalizza lo sguardo con le sue decorazioni d'ispirazione arabo-normanne. Sulla stessa piazza si trova l'ottocentesca chiesa del Sacro Cuore e la chiesa di San Giovanello (X-XII secolo).
Arrivati sin qui è d'obbligo una sosta al civico 3 di Largo Tre Chiese dove non passa inosservato un negozio letteralmente invaso da peperonicini rossi a mo' di ornamento che sono un vero e proprio invito a lasciarsi tentare dalle specialità gastronomiche locali. Si chiama “I prodotti tipici geracesi” ed è una vera festa per la vista e per il gusto; all'interno scaffali su scaffali esibiscono tutto il meglio della produzione calabrese in fatto di tradizione culinaria ed è pressoché impossibile resistere all'acquisto e all'assaggio estemporaneo di qualche prelibatezza.
A noi viene offerto un liquoroso vino al bergamotto che sorseggiamo sulle note di una tarantella che vibra nell'aria, mentre turisti curiosi – per lo più stranieri – si affacciano di continuo quasi timorosi, prima di entrare ed unirsi a noi nella bevuta. La generosa ospitalità fatta di gesti spontanei che superano la diffidenza di un popolo rude avvezzo alla sofferenza, è un altro pregio di questo lembo di provincia che l'isolamento ha reso mite ma non scostante.
In questo Sud del Sud d'Italia dove fiorì la più grande civiltà dell'era antica, si concentrano vivide testimonianze del passato legato alle origine greco-romane: dagli scavi archeologici di Locri Epizephiri e di Kauolon (Caulonia) nei pressi di Monasterace Marina, alla villa romana di Casignana, frazione di Bianco, ai ben più famosi bronzi di Riace.
E di questo concentrato di storia ce ne parlano i molti resti di città fantasma, ma anche la voce narrante di vecchi abitanti dei borghi cosiddetti “grecanici”, di quelli bizantini e delle popolazioni arbëresche, con i loro ricordi sconnessi e la durezza della vita scolpita a pelle sui volti raggrinziti dal tempo e dall'arsura del clima. Scambiare due parole, benché spesso incomprensibili, con uno di questi “saggi” del paese è forse la più grande ricchezza da portare a casa. Insieme, naturalmente, a una invidiabile tintarella da tropici e alle tante tipicità enogastronomiche che è in grado di offrire un territorio baciato dal sole, cullato dal mare e protetto dai monti.
Ampi balconi scoscesi che guardano il mare. Il forte contrasto restituito a questo estremo lembo meridionale della penisola dal massiccio dell'Aspromonte, spiega le infinite suggestioni che molti poeti e scrittori trovarono per descrivere le ardite architetture naturali della Calabria jonica. Secondo Guido Piovene, un dio capriccioso avrebbe dato origine alla Calabria creando diversi mondi e divertendosi poi a frantumarli e a mescolarli insieme. E lo stesso si potrebbe dire per il retroterra culturale che avvolge di certa nobiltà arcaica lo spirito delle genti di qui, forti di una identità permeata dal passaggio di diverse popolazioni (italici, greci, romani, bruzi).
E se i pescatori che intagliano le reti al calar della sera sulla battigia, appoggiati alla loro barchetta dipinta, scandiscono la ritualità dei paesi distesi lungo la costa, i contadini che pascolano tra i sentieri dell'Aspromonte i loro greggi di pecore e capre, fermano il tempo dei borghi interni arroccati su un mondo così lento da sembrare persino finto. La Costa dei Gelsomini, dunque, non è solo quel pittoresco succedersi di piccoli centri balneari odor di bergamotto e zagara con la ferrovia che segue parallela la linea del mare da una parte, e la statale 106 Jonica dall'altra.
Con piccole deviazioni spesso tortuose si possono raggiungere i villaggi di un entroterra punteggiato dalle tipiche “fiumare” (ampi greti riempiti di ghiaia e ciottoli), ruderi di castelli e santuari ancora meta di pellegrinaggi, paesi fantasma e piccole città-gioiello, che spiccano discrete per la loro rilevanza storica ed artistica. Sono ben 42 i gioielli della Costa, tra tutti citiamo Gerace e Stilo, la città del filosofo Tommaso Campanella (1568-1639) famosa per la sua “Cattolica”, il più illustre esempio di architettura bizantina in Calabria: un capolavoro del X secolo interamente in mattoni con tre absidi e cinque cupolette dai tamburi cilindrici, ancora miracolosamente intatto.
Bianco
Un tempo il cartello della strada statale 106 – che da Taranto porta fino a Reggio Calabria – salutava l'ingresso al paese con la scritta “Benvenuti a Bianco il bello del mare”. Oggi il “bello del mare” ha lasciato il posto alla “città del vino”, con buona pace degli astemi. Il vino, diciamolo subito, è quel nettare degli dei che ha nome Vino Greco e che è stato riconosciuto Doc nel 1980.
La statale 106 è l'arteria del paese, sbocco nevrotico e anarchico del traffico – disordinato e disorientante, specie durante l'estate quando il paese da 4000 anime si riempie per lo più di amici e parenti dei parenti, gente dei borghi limitrofi, superstiti all'esterofilia e devoti alla Madonna di Pugliano, la Santa Patrona, venerata con grandi festeggiamenti dal 13 al 15 agosto. Da questa strada si diramano le vie che conducono nella parte alta del paese e quella principale è un lungo stradone alberato che, da un certo punto in poi, si impenna in salita con una pendenza considerevole.
Proprio in cima alla salita si trova il Duomo di “Tutti i Santi”, la chiesa principale dove è collocata la preziosa statua in alabastro di Santa Caterina d'Alessandria d'Egitto (1530). Qui dall'alto, potendo salire su una delle terrazze delle case rimaste in questa parte scomoda di paese, si ha una visione privilegiata del profilo urbanistico e del mare. Un colpo d'occhio illuminante quest'ultimo – specie verso le sette/otto di sera – che ci piace ricollegare all'essenza etimologica del nome del paese, a dispetto della versione ufficiale, riportata da tutte le guide, associata al colore delle colline cretacee che circondano il territorio. La linea del cielo è esattamente fusa con quella del mare, in un unico colore bianco vagamente rosa che sembra uscito dalla tavolozza di un pittore.
Il mare racchiude l'anima dei paesi di mare. Il mare di Bianco è un camaleonte timido e sfrontato che assorbe colorazioni di volta in volta diverse eppure mai casuali. Come quando l'acqua, al sorgere del sole si tinge di rosso – un rosso color di vino che ai più sportivi fa pensare alla tinta della maglia della Reggina – e alla sera, nelle notti di luna piena, diventa argento, bagliore diffuso sul manto nero ondulato della notte. Di questo mare i pescatori raccontano mirabilie, a cominciare da quel miracolo del quadro della Madonna di Pugliano che proprio dalle acque joniche sarebbe venuto, scampando alle razzie dei Turchi; quei pescatori dalla pelle arsa dal sole, sparsi nelle vecchie casette – oggi in gran parte ristrutturate – sul lungomare a ridosso della spiaggia, dove la battigia è solcata da barche e barchette siglate con date, nomi di donne, madonne e santi.
Ed è proprio qui, ai bordi del mare, che storicamente è avvenuta la contaminazione della vecchia cultura contadina con la nuova marinara, costituita da immigrati calabro-siculi, quando in seguito al secondo terremoto del 1908 (il primo fu nel 1783), l'antico borgo originario di Bianco Vecchio venne trasferito definitivamente nel Bianco Novo, centro abitato sorto nei pressi della spiaggia. Oggi Bianco è il paese che, durante l'estate, accoglie il maggior numero di turisti stranieri e di visitatori provenienti dalle località limitrofe e questo grazie al primato che, ormai da decenni, ha conquistato l'“estate bianchese”. Merito, soprattutto, dello spettacolo pirotecnico di Ferragosto (i famosi “fuochi dell'una” di notte) con cui la cittadina calabrese ha partecipato a competizioni di carattere internazionale.
La Strada del Vino e dei Sapori della Locride
La presenza della Doc Greco di Bianco contrassegna il territorio noto come la Strada del Vino e dei Sapori della Locride, un'area che congiunge un lungo tratto della costa jonica ai paesi interni inerpicati a ridosso dell'Aspromonte. A fare compagnia al liquoroso Greco di Bianco – o “Grecanico” che dir si voglia – vi è un altro passito, il Mantonico di Bianco. La leggenda farebbe risalire a un colono greco l'introduzione nel territorio calabrese dei primi tralci di vite, al tempo dello sbarco dei Locresi presso il promontorio Zefiro (VII sec. a.C.), oggi Capo Bruzzano (quel tratto di litorale che Legambiente ha inserito nella top ten delle 10 spiagge più belle d'Italia). In ogni caso i vitigni introdotti con la colonizzazione ellenica si adattarono all'ambiente di coltivazione talmente bene da potersi considerare “autoctoni”.
La gemma enologica della Locride vanta un colore giallo tendente al dorato e riflessi ambrati e non mancherà mai a fine pasto nelle tavole imbandite dei calabresi della provincia reggina, soprattutto durante i festeggiamenti di Ferragosto. A sposare il sapore di questo “nettare degli dei” – come viene definito il Greco di Bianco per antonomasia – intervengono gustose prelibatezze di pasticceria come lo stomatico, i petrali, i torroni con copertura al cioccolato sia nero che bianco, i dolci di ricotta e i raffinati dolci di marzapane.
Gerace
Uno sparviero (hierax, in greco) avrebbe guidato alcuni profughi locresi fino ai piedi di un'alta e solitaria rupe. Così la leggenda ci informa della nascita di Gerace, una preziosa città a sorpresa – raggiungibile con una deviazione di circa 8 chilometri in salita della statale 106 da Locri – che dall'alto dei suoi 500 metri regala spettacolari scenografie da qualunque parte la si osservi. Nonostante la sua fama e l'incontrastata bellezza abbiano reso questo millenario centro difensivo una località turistica a tutti gli effetti, è una sensazione di quieta armonia a predominare tra le vie del borgo, diviso in tre nuclei urbani: la città alta in cima al colle, il Borgo maggiore e il Borghetto.
Un compatto nucleo di edifici fuori dalle mura cittadine costituisce il Borgo (maggiore), il regno dei contadini e dei vasai chini sulle loro tavole di terracotta a tramandare una tradizione artigiana che ancora li vede lavorare in botteghe scavate nel tufo. In cammino tra le viuzze di stampo medioevale non si tarderà a imbattersi in qualcuna delle 79 chiese che appartennero al passato fiorente della città ai tempi della dominazione normanna. Nonostante di chiese ne siano rimaste appena una decina, le testimonianze antiche permeano tutt'ora l'ambiente di Gerace la cui stessa architettura urbana lascia con il fiato sospeso.
Tra il quartiere popolare detto Borghetto e la città alta nobilmente adagiata sulla cima pianeggiante della rupe, si possono ammirare scorci sorprendenti; non sorprende affatto, invece, l'insediamento di artisti, pittori, fotografi e registi in questa sorta di laboratorio a cielo aperto che è il paesaggio quasi religioso di Gerace, rimasto immune da ogni qualsivoglia storpiatura moderna. Un addensamento di casette bianche disposte a schiera come un presepe è quello che si offre alla vista dall'alto del Belvedere, lungo la passeggiata panoramica introdotta dalle porte urbiche delle Bombarde.
Il cuore della città alta è piazza del Tocco, il “salotto” di Gerace coreografato dai palazzi delle nobili famiglie cittadine e dalla sede del Municipio (il palazzo del Tocco). Bisogna percorrere via Zaleuco per salire a piazza Vittorio Emanuele, detta piazza della Tribuna, e riconoscere la maestosità delle absidi della Cattedrale di Gerace, una delle più importanti chiese di tutta la Calabria. Attraversando il barocco arco dei Vescovi ci si immette lungo il fianco settentrionale della chiesa che introduce al portale d'ingresso. L'impianto bizantino del tempio si fonde con elementi caratteristici delle cattedrali normanne, visibili soprattutto nel transetto sporgente e nella disposizione delle absidi semicircolari.
Nell'interno vige una sobrietà basilicale tuttavia solenne e severa, contraddistinta dalla separazione dello spazio in tre navate mediante fusti e capitelli antichi in parte provenienti dalla rovine di Locri. L'altare maggiore in marmi policromi restituisce uno sfarzo di stampo settecentesco al pari dei grandi candelabri in bronzo. Incute quasi soggezione scendere nel silenzio e nella penombra della Cripta, il nucleo più antico della Cattedrale che ne testimonia l'origine pagana. La cappella della Madonna dell'Itria è il nucleo della chiesa inferiore, piccolo ambiente ricavato nel 1261 da una chiesa rupestre, decorato con marmi policromi, e pavimentato con maioliche geracesi del XVII secolo.
E' attorno a questo maestoso tempio religioso che si addensano quasi tutte le altre rimanenti chiese di Gerace. Percorrendo le vie di questa parte nobile di città si possono osservare i numerosi elementi architettonici del passato, come “bifore” e logge rinascimentali, che impreziosiscono la tavolozza di questo quadro d'autore. Dalla Cattedrale, imboccando via Caduti sul Lavoro, si giunge a una piazza dove si trovano ben tre chiese (Largo Tre Chiese). La maggiore è la chiesa di San Francesco d'Assisi (1252) dominata da purissime linee gotiche e da un massiccio portale che catalizza lo sguardo con le sue decorazioni d'ispirazione arabo-normanne. Sulla stessa piazza si trova l'ottocentesca chiesa del Sacro Cuore e la chiesa di San Giovanello (X-XII secolo).
Arrivati sin qui è d'obbligo una sosta al civico 3 di Largo Tre Chiese dove non passa inosservato un negozio letteralmente invaso da peperonicini rossi a mo' di ornamento che sono un vero e proprio invito a lasciarsi tentare dalle specialità gastronomiche locali. Si chiama “I prodotti tipici geracesi” ed è una vera festa per la vista e per il gusto; all'interno scaffali su scaffali esibiscono tutto il meglio della produzione calabrese in fatto di tradizione culinaria ed è pressoché impossibile resistere all'acquisto e all'assaggio estemporaneo di qualche prelibatezza.
A noi viene offerto un liquoroso vino al bergamotto che sorseggiamo sulle note di una tarantella che vibra nell'aria, mentre turisti curiosi – per lo più stranieri – si affacciano di continuo quasi timorosi, prima di entrare ed unirsi a noi nella bevuta. La generosa ospitalità fatta di gesti spontanei che superano la diffidenza di un popolo rude avvezzo alla sofferenza, è un altro pregio di questo lembo di provincia che l'isolamento ha reso mite ma non scostante.