Castell'Arquato, Vigoleno e Veleia
L’Arda e la Vite. Un fiume e il vino hanno scandito nei secoli la vita dell’uomo di queste terre, incastonate tra le propaggini dell’Appennino e la bassa emiliana. Un fiume, l’Arda, che disegna una valle ricca di spunti di viaggio culturali, paesaggistici, enogastronomici e che trova nelle circostanti colline le alleate per una coltivazione a vigneto che, specialmente negli ultimi anni, sta dando ottimi frutti, piacevoli da degustare durante una breve sosta tra un castello, una chiesa e una stradina rubata al medioevo. Due le tappe di questo nostro itinerario piacentino: Castell’Arquato e Vigoleno. In mezzo una bella strada, da percorrere con lentezza.
A cura della redazione
Castell'Arquato
L'antico borgo medioevale di Castell'Arquato - in piena Val d'Arda, in provincia di Piacenza - è un luogo di rara bellezza, carico di storia, dove forte è il senso delle tradizioni d'arti e mestieri. La parte vecchia conserva intatta un’atmosfera magica, d’altri tempi, con le antiche case, i vicoli stretti che portano alla parte superiore del colle, sulla cui sommità si apre l'ampia Piazza monumentale incorniciata dalla Rocca Viscontea, dal Palazzo del Podestà e dalla Collegiata.
L'edificazione della Rocca, una delle fabbriche militari più notevoli del Nord Italia, ha inizio nel 1342 sotto il dominio di Luchino Visconti, sulle fondamenta del preesistente Castrum Quadratum, edificato dai romani nel III sec. a.C. L'imponenza dell'edificio, che scende verso valle, ne denuncia la sua importanza difensiva. La pianta a "L" presenta una cinta minore verso la piazza, perpendicolare al grande quadrilatero della cinta inferiore. Su tutto il complesso domina la mole del Dongione, recentemente restaurato e visitabile fino all'ultimo piano. Nelle sale interne è allestito un interessante Museo di vita medioevale.
Il Palazzo del Podestà è una complessa costruzione formata da più volumi architettonici in cotto, che si dipartono da un unico grande blocco a tre piani. Questa struttura, la parte duecentesca dell'edificio, è contraddistinta da una merlatura a coda di rondine. La sua costruzione, voluta da Alberto Scoto, fu ultimata nel 1296. Del 1447 è, invece, la doppia loggia. Il Palazzo fu sede del governo del Podestà e abitazione del Conte di Santa Fiora; dalla fine del Cinquecento fino al 1850, fu occupato dalla pretura; mentre i locali a pianterreno furono adibiti a scuola. L'attuale sede dell'Enoteca comunale, al pianterreno, fu un carcere e persino un magazzino per il sale.
Le prime notizie della Collegiata risalgono al secolo VIII, precisamente al 756 e 758, e riferiscono di una chiesa, tra le più antiche del territorio piacentino, con funzione di pieve battesimale. Un edificio completamente ricostruito dopo il terremoto del 1117 e consacrato nel 1122. La facciata dà su quella che fino alla metà del Trecento doveva essere la piazza del borgo. La pietra arenaria, con profilo a salienti scandito da quattro paraste, rivela un bel portale, una piccolissima bifora, un'apertura a forma di croce sulla sommità e una teoria di archetti in pietra che seguono l’andamento del tetto. Il lato sinistro ecco il "Portico del Paradiso", della seconda metà del XIV secolo. Originariamente posto sulla facciata, è una delle opere romaniche più interessanti della regione.
La parte più affascinante dell’intera costruzione è però costituita dalle quattro absidi, dogmaticamente rivolte a est, verso la piazza monumentale, con il loro meraviglioso gioco volumetrico che si contrappone al tetto a capanna della chiesa e al minuto campanile quadrato. L’interno presenta interessanti capitelli figurati e sculture romaniche del XII secolo, e affreschi, tra i quali spicca il ciclo dedicato a Santa Caterina, nell’omonima cappella. Passando per un piccolo chiostro della fine del XIII secolo, si giunge al Museo della Collegiata, piccolo ma ricco di opere d'arte, tra cui un bellissimo paliotto di scuola bizantina.
All'ingresso di Castell'Arquato, sulla provinciale in direzione Fiorenzuola d'Arda, si dirama una strada panoramica con splendide viste sui vigneti dei colli piacentini, zona di produzione tipica di rinomati vini Doc: i rossi Gutturnio, Bonarda e Barbera e i bianchi Ortrugo, Malvasia e Monterosso val d'Arda. Superata la frazione Costa Stradivari si arriva a Bacedasco Alto, si devia a destra. La strada scende nella vallata adiacente del torrente Ongina per poi risalire sul crinale della val Stirone fino all'incantevole Rocca di Vigoleno.
Il borgo di Vigoleno
Vigoleno è uno dei borghi fortificati meglio conservati d’Italia, un “fazzoletto medioevale” circondato da viti e dominato dall’alta torre del castello, fatto edificare dagli Scotti nel XII secolo. L’originaria cinta muraria, ancora oggi come sette secoli fa, difende il piccolo abitato, l’oratorio della Madonna del Latte (detto anche della Beata Vergine delle Grazie) e la parrocchiale di San Giorgio, che nella tipica agiografia medioevale consente di ripercorrere le vicende del santo cavaliere uccisore del drago.
La parrocchiale, di potente bellezza romanica, con tutta probabilità risale alla metà del XII secolo. Oltrepassato il bel portale, che si apre su una facciata realizzata in pietra locale, l’interno appare austero, buio, trasposizione di quella costrizione dell’anima che esplode nella bellezza di capitelli antropozoomorfi, tipicamente romanici. Tornati alla luce, lo sguardo abbraccia nuovamente le mura del castello che racchiudono il piccolo borgo. Con un briciolo di fantasia, non è difficile scorgere tra queste strette vie la sagoma di un armigero a cavallo o percepire il cadenzato lamento di un postulante posto all’ingresso della chiesa.
Il borgo, infatti, più che per i suoi notevoli monumenti, affascina per la sua particolare atmosfera, per quel suo essere raccolto attorno alla rocca, per quel suo senso di appartenenza a un’epoca ricca di infiniti contrasti che ancora ammaliano. Con calma, per non subire improvvisi choc da modernità, dopo la visita della rocca, si può completare il circuito scendendo verso Groppo e Franchini, e al bivio di fondo valle risalire rientrando a Castell'Arquato, con splendide viste sulla Rocca Viscontea, per edulcorare il ritorno alla quotidianità.
L'antico borgo medioevale di Castell'Arquato - in piena Val d'Arda, in provincia di Piacenza - è un luogo di rara bellezza, carico di storia, dove forte è il senso delle tradizioni d'arti e mestieri. La parte vecchia conserva intatta un’atmosfera magica, d’altri tempi, con le antiche case, i vicoli stretti che portano alla parte superiore del colle, sulla cui sommità si apre l'ampia Piazza monumentale incorniciata dalla Rocca Viscontea, dal Palazzo del Podestà e dalla Collegiata.
L'edificazione della Rocca, una delle fabbriche militari più notevoli del Nord Italia, ha inizio nel 1342 sotto il dominio di Luchino Visconti, sulle fondamenta del preesistente Castrum Quadratum, edificato dai romani nel III sec. a.C. L'imponenza dell'edificio, che scende verso valle, ne denuncia la sua importanza difensiva. La pianta a "L" presenta una cinta minore verso la piazza, perpendicolare al grande quadrilatero della cinta inferiore. Su tutto il complesso domina la mole del Dongione, recentemente restaurato e visitabile fino all'ultimo piano. Nelle sale interne è allestito un interessante Museo di vita medioevale.
Il Palazzo del Podestà è una complessa costruzione formata da più volumi architettonici in cotto, che si dipartono da un unico grande blocco a tre piani. Questa struttura, la parte duecentesca dell'edificio, è contraddistinta da una merlatura a coda di rondine. La sua costruzione, voluta da Alberto Scoto, fu ultimata nel 1296. Del 1447 è, invece, la doppia loggia. Il Palazzo fu sede del governo del Podestà e abitazione del Conte di Santa Fiora; dalla fine del Cinquecento fino al 1850, fu occupato dalla pretura; mentre i locali a pianterreno furono adibiti a scuola. L'attuale sede dell'Enoteca comunale, al pianterreno, fu un carcere e persino un magazzino per il sale.
Le prime notizie della Collegiata risalgono al secolo VIII, precisamente al 756 e 758, e riferiscono di una chiesa, tra le più antiche del territorio piacentino, con funzione di pieve battesimale. Un edificio completamente ricostruito dopo il terremoto del 1117 e consacrato nel 1122. La facciata dà su quella che fino alla metà del Trecento doveva essere la piazza del borgo. La pietra arenaria, con profilo a salienti scandito da quattro paraste, rivela un bel portale, una piccolissima bifora, un'apertura a forma di croce sulla sommità e una teoria di archetti in pietra che seguono l’andamento del tetto. Il lato sinistro ecco il "Portico del Paradiso", della seconda metà del XIV secolo. Originariamente posto sulla facciata, è una delle opere romaniche più interessanti della regione.
La parte più affascinante dell’intera costruzione è però costituita dalle quattro absidi, dogmaticamente rivolte a est, verso la piazza monumentale, con il loro meraviglioso gioco volumetrico che si contrappone al tetto a capanna della chiesa e al minuto campanile quadrato. L’interno presenta interessanti capitelli figurati e sculture romaniche del XII secolo, e affreschi, tra i quali spicca il ciclo dedicato a Santa Caterina, nell’omonima cappella. Passando per un piccolo chiostro della fine del XIII secolo, si giunge al Museo della Collegiata, piccolo ma ricco di opere d'arte, tra cui un bellissimo paliotto di scuola bizantina.
All'ingresso di Castell'Arquato, sulla provinciale in direzione Fiorenzuola d'Arda, si dirama una strada panoramica con splendide viste sui vigneti dei colli piacentini, zona di produzione tipica di rinomati vini Doc: i rossi Gutturnio, Bonarda e Barbera e i bianchi Ortrugo, Malvasia e Monterosso val d'Arda. Superata la frazione Costa Stradivari si arriva a Bacedasco Alto, si devia a destra. La strada scende nella vallata adiacente del torrente Ongina per poi risalire sul crinale della val Stirone fino all'incantevole Rocca di Vigoleno.
Il borgo di Vigoleno
Vigoleno è uno dei borghi fortificati meglio conservati d’Italia, un “fazzoletto medioevale” circondato da viti e dominato dall’alta torre del castello, fatto edificare dagli Scotti nel XII secolo. L’originaria cinta muraria, ancora oggi come sette secoli fa, difende il piccolo abitato, l’oratorio della Madonna del Latte (detto anche della Beata Vergine delle Grazie) e la parrocchiale di San Giorgio, che nella tipica agiografia medioevale consente di ripercorrere le vicende del santo cavaliere uccisore del drago.
La parrocchiale, di potente bellezza romanica, con tutta probabilità risale alla metà del XII secolo. Oltrepassato il bel portale, che si apre su una facciata realizzata in pietra locale, l’interno appare austero, buio, trasposizione di quella costrizione dell’anima che esplode nella bellezza di capitelli antropozoomorfi, tipicamente romanici. Tornati alla luce, lo sguardo abbraccia nuovamente le mura del castello che racchiudono il piccolo borgo. Con un briciolo di fantasia, non è difficile scorgere tra queste strette vie la sagoma di un armigero a cavallo o percepire il cadenzato lamento di un postulante posto all’ingresso della chiesa.
Il borgo, infatti, più che per i suoi notevoli monumenti, affascina per la sua particolare atmosfera, per quel suo essere raccolto attorno alla rocca, per quel suo senso di appartenenza a un’epoca ricca di infiniti contrasti che ancora ammaliano. Con calma, per non subire improvvisi choc da modernità, dopo la visita della rocca, si può completare il circuito scendendo verso Groppo e Franchini, e al bivio di fondo valle risalire rientrando a Castell'Arquato, con splendide viste sulla Rocca Viscontea, per edulcorare il ritorno alla quotidianità.
Approfondimento: l'Area Archeologica di Veleia Romana
A cura di Anna Maria Arnesano e Giulio Badini
Da quasi un'ora, dopo l'uscita dal casello autostradale di Fiorenzuola, la macchina procede dubbiosa tra curve, salite e discese, superando crinali e fondivalle, quando finalmente un cartello arriva a tranquillizzare: Veleia, scavi romani. Di tutto ci si potrebbe aspettare di trovare in questo tratto interno dell'Appennino piacentino caratterizzato da boschi, prati e calanchi, dove abbondanti rinvenimenti di pesci fossili attestano la presenza del mare milioni di anni or sono, fuorché i resti di una città romana.
Ma fondamenta di abitazioni, pavimenti delle terme, colonne e monumenti dell'antico foro sono lì a dimostrarlo. Curioso il fatto di dover salire tra queste colline, distanti un'ora d'auto dalla Via Emilia, per trovare l'insediamento romano meglio conservato dell'intera regione. Tutti i numerosi altri, e ben più consistenti centri, distribuiti lungo l'importante via consolare da Piacenza a Rimini giacciono infatti sepolti sotto le omonime, o quasi, città moderne.
Tutto inizia nel 1747, quando viene casualmente scoperta in un campo di una frazione del comune di Lugagnano Val d'Arda un'enorme lastra di bronzo scritta, la maggiore finora rinvenuta in tutto l'impero romano (m 1,38 x 2,86), contenente la Tabula alimentaria traianea, un complesso documento censuario del territorio veliate risalente alla prima metà del II° sec. d.C., che elencava i nomi di tutti i proprietari terrieri, l'ubicazione dei fondi ed i loro valori in sesterzi. Una specie di cartella esattoriale collettiva, forse poco apprezzata dai diretti interessati.
Poco dopo venne rinvenuta nello stesso luogo, che poi si rivelerà essere la basilica, un'altra lastra bronzea contenente un frammento della Lex Rubria de Gallia Cisalpina, un testo giuridico emanato da Giulio Cesare tra il 49 e il 42 a.C. Chiari segnali che sotto doveva esserci qualcosa di importante. A quel tempo il ducato di Parma e Piacenza era retto da Filippo di Borbone, fratello minore di Carlo, re di Napoli. Al giovane Borbone non parve vero di poter emulare le gesta del fratello, che già aveva iniziato a mettere in luce i resti delle città vesuviane di Ercolano e Pompei, ricavandone enorme prestigio, e diede il via agli scavi nel 1760.
Cominciarono così ad affiorare dall'oblio le fondamenta delle terme, strade porticate, negozi, taverne, magazzini, laboratori e diversi quartieri residenziali, il tempio e la curia, nonché un'enorme cisterna idrica scambiata – a causa della sua forma ovale – per i resti di un anfiteatro, il tutto attorno ad un monumentale foro centrale – considerato oggi come il meglio conservato in Italia – con annessa basilica, quest'ultima contenente un pregevole gruppo di dodici statue in marmo apuano della famiglia imperiale giulio-claudia. Nonostante l'immetodicità degli scavi, condotti ovviamente con criteri poco scientifici e modalità poco ortodosse, e il trafugamento o la dispersione di parecchio materiale, gli scavi di Veleia furono alla base della creazione dell'attuale Museo Archeologico Nazionale di Parma, uno dei primi a sorgere in Italia.
Ma prima ancora di apprezzare le vestigia del passato, una domanda assale prepotente il visitatore: perché mai creare un insediamento così lontano dalle grandi vie di comunicazione, distante dalle città della pianura, su un terreno erto e franoso che obbliga a costruire costosi terrazzi e muri di sostegno? La risposta va cercata a cavallo tra il III° e il II° secolo a.C. con l'espansione romana nella Gallia Cisalpina, la creazione della Via Aemilia, che a Piacenza si raccordava con la Via Postumia per unire Genova e Aquileia, la nascita o la romanizzazione degli importanti centri posti lungo questo percorso.
Sulle colline piacentine, lungo un'antica via di transito commerciale tra Po e Tirreno, sorgeva a 460 m di quota un villaggio della tribù ligure dei Veleiates. Senza colpo ferire legionari veterani, commercianti, liberti e pubblici funzionari affiancarono pian piano gli elementi indigeni, sostituendo le vecchie capanne con abitazioni di pietra decorate da pitture, statue e mosaici, ed elevando pregevoli edifici pubblici resi pomposi da marmi provenienti dalle Apuane, dai monti veronesi e finanche dalla lontana Istria. Ai legionari congedati vennero assegnati in premio appezzamenti di terreno di forma quadrata, che ancora oggi contraddistinguono il paesaggio, e questi cominciarono a produrre un vino, il Gutturnium, ancora oggi apprezzato.
Il posto è salubre, il clima mite in ogni stagione, ricco di legname, di selvaggina, di pascoli per gli armenti, di sorgenti naturali e termali (Salsomaggiore e Tabiano non sono distanti) e in più ci si può anche divertire incendiando gli idrocarburi (gas metano e petrolio) che sgorgano spontanei dal terreno, fenomeno che sa tanto di magia e capace di richiamare parecchi secoli più tardi l'attenzione anche di Alessandro Volta. E per finire ci si mise pure Plinio, rivelando come a Veleia si contassero non pochi ultracentenari; dal censimento compiuto da Vespasiano nel 72 d.C. risultava infatti che vi risiedevano sei persone che avevano superato i 110 anni – un limite enorme considerato che all'epoca si faceva fatica ad arrivare ai 60-70 – quattro i 120 e un certo Marcus Mutius Marci era arrivato al lusinghiero traguardo dei 140 anni. Errori dell'anagrafe o merito delle acque termali e del buon vino elogiato da Cicerone?
Da centro commerciale e amministrativo di un vasto comprensorio esteso dal fiume Taro al Trebbia, dalla pianura al crinale appenninico, il piccolo municipio diventò in breve tempo anche un ricercato luogo di villeggiatura ante litteram, con i forestieri impegnati a dimostrare la loro gratitudine per la ritrovata vigoria a suon di lapidi, statue e opere pubbliche. Nel 42 d.C ottenne anche il diritto di cittadinanza romana. La posizione defilata sulle colline, più che un inconveniente, finì per rivelarsi ben presto come un enorme pregio, lontana dalle beghe della politica, dai capricci delle legioni, dal passaggio degli eserciti invasori, tanto da non richiedere nemmeno la presenza di mura o di qualsiasi altra opera difensiva, come troviamo invece in tutti gli altri centri coevi.
E per almeno due secoli, dalla tarda età repubblicana alla piena epoca imperiale, Veleia costituì una vera oasi di tranquillità e di prosperità, celata tra le selve dell'Appennino piacentino. Non sappiamo cosa ne decretò il declino nel IV° secolo e la scomparsa definitiva poi: forse una serie di concause, legate al dissolversi dell'impero ed alla fine della pax romana. Ma il fatto di sorgere sulle pendici di due monti chiamati Morìa e Rovinasso, in una zona soggetta a movimenti franosi ed a smottamenti del terreno, potrebbe fornirci una plausibile risposta.
A colpire il visitatore, oltre al contesto bucolico, sono in particolare il Foro, lastricato in arenaria e con tre lati porticati, dove gli spazi venivano dilatati per effetto ottico dalla presenza di pitture murali; sui suoi lati si aprivano botteghe e ambienti pubblici. Era il centro della vita pubblica e privata della città, e in mancanza di un anfiteatro vi si tenevano anche gli spettacoli. Ha restituito varie statue bronzee, tra cui una vittoria alata, ed epigrafi dedicate agli imperatori Domizio, Aureliano, Marco Aurelio e Adriano.
Su un fianco sorgeva la basilica, a navata unica con esedre rettangolari alle testate, dove erano collocate le dodici statue in marmo apuano della famiglia giulio-claudia, ora esposte al Museo di Parma, dono del console e pontefice piacentino Lucio Calpurnio Pisone, fratello della moglie di Giulio Cesare e protettore di Veleia. Interessanti anche le terme, che utilizzavano acque cloruro-sodiche dalle indubbie proprietà terapeutiche (bisognerebbe poter chiedere conferma agli antichi ultracentenari), strutturate nei tre classici ambienti di calidarium, tepidarium e frigidarium, con spogliatoi separati per uomini e donne, dotato di un termopolio, cioè del bar delle terme (è proprio vero che noi moderni non abbiamo inventato nulla), e infine i quartieri residenziali, dove prevale il modello abitativo di domus monofamiliare di tipo italico, composta da diversi vani affacciati sul cortile dell'atrium.
La presenza del mulino e del frantoio ci fanno intuire le abitudini alimentari. Sorprende la modernità e la funzionalità del complesso: tutti gli edifici pubblici e privati erano dotati di fognature e di impianti di riscaldamento: potere dell'ingegneria idraulica romana. Una visita merita infine anche il piccolo Antiquarium, ospitato nell'edificio della direzione: contiene vari corredi provenienti da una vicina necropoli preromana, una scultura mutila in arenaria di uomo barbuto, una patera di vetro murrino, una situla in rame, un mosaico policromo con maschera teatrale dal Foro e una stele in marmo lunense con figura di cacciatore. I reperti più importanti sono però conservati nel Museo Archeologico di Parma.
A cura di Anna Maria Arnesano e Giulio Badini
Da quasi un'ora, dopo l'uscita dal casello autostradale di Fiorenzuola, la macchina procede dubbiosa tra curve, salite e discese, superando crinali e fondivalle, quando finalmente un cartello arriva a tranquillizzare: Veleia, scavi romani. Di tutto ci si potrebbe aspettare di trovare in questo tratto interno dell'Appennino piacentino caratterizzato da boschi, prati e calanchi, dove abbondanti rinvenimenti di pesci fossili attestano la presenza del mare milioni di anni or sono, fuorché i resti di una città romana.
Ma fondamenta di abitazioni, pavimenti delle terme, colonne e monumenti dell'antico foro sono lì a dimostrarlo. Curioso il fatto di dover salire tra queste colline, distanti un'ora d'auto dalla Via Emilia, per trovare l'insediamento romano meglio conservato dell'intera regione. Tutti i numerosi altri, e ben più consistenti centri, distribuiti lungo l'importante via consolare da Piacenza a Rimini giacciono infatti sepolti sotto le omonime, o quasi, città moderne.
Tutto inizia nel 1747, quando viene casualmente scoperta in un campo di una frazione del comune di Lugagnano Val d'Arda un'enorme lastra di bronzo scritta, la maggiore finora rinvenuta in tutto l'impero romano (m 1,38 x 2,86), contenente la Tabula alimentaria traianea, un complesso documento censuario del territorio veliate risalente alla prima metà del II° sec. d.C., che elencava i nomi di tutti i proprietari terrieri, l'ubicazione dei fondi ed i loro valori in sesterzi. Una specie di cartella esattoriale collettiva, forse poco apprezzata dai diretti interessati.
Poco dopo venne rinvenuta nello stesso luogo, che poi si rivelerà essere la basilica, un'altra lastra bronzea contenente un frammento della Lex Rubria de Gallia Cisalpina, un testo giuridico emanato da Giulio Cesare tra il 49 e il 42 a.C. Chiari segnali che sotto doveva esserci qualcosa di importante. A quel tempo il ducato di Parma e Piacenza era retto da Filippo di Borbone, fratello minore di Carlo, re di Napoli. Al giovane Borbone non parve vero di poter emulare le gesta del fratello, che già aveva iniziato a mettere in luce i resti delle città vesuviane di Ercolano e Pompei, ricavandone enorme prestigio, e diede il via agli scavi nel 1760.
Cominciarono così ad affiorare dall'oblio le fondamenta delle terme, strade porticate, negozi, taverne, magazzini, laboratori e diversi quartieri residenziali, il tempio e la curia, nonché un'enorme cisterna idrica scambiata – a causa della sua forma ovale – per i resti di un anfiteatro, il tutto attorno ad un monumentale foro centrale – considerato oggi come il meglio conservato in Italia – con annessa basilica, quest'ultima contenente un pregevole gruppo di dodici statue in marmo apuano della famiglia imperiale giulio-claudia. Nonostante l'immetodicità degli scavi, condotti ovviamente con criteri poco scientifici e modalità poco ortodosse, e il trafugamento o la dispersione di parecchio materiale, gli scavi di Veleia furono alla base della creazione dell'attuale Museo Archeologico Nazionale di Parma, uno dei primi a sorgere in Italia.
Ma prima ancora di apprezzare le vestigia del passato, una domanda assale prepotente il visitatore: perché mai creare un insediamento così lontano dalle grandi vie di comunicazione, distante dalle città della pianura, su un terreno erto e franoso che obbliga a costruire costosi terrazzi e muri di sostegno? La risposta va cercata a cavallo tra il III° e il II° secolo a.C. con l'espansione romana nella Gallia Cisalpina, la creazione della Via Aemilia, che a Piacenza si raccordava con la Via Postumia per unire Genova e Aquileia, la nascita o la romanizzazione degli importanti centri posti lungo questo percorso.
Sulle colline piacentine, lungo un'antica via di transito commerciale tra Po e Tirreno, sorgeva a 460 m di quota un villaggio della tribù ligure dei Veleiates. Senza colpo ferire legionari veterani, commercianti, liberti e pubblici funzionari affiancarono pian piano gli elementi indigeni, sostituendo le vecchie capanne con abitazioni di pietra decorate da pitture, statue e mosaici, ed elevando pregevoli edifici pubblici resi pomposi da marmi provenienti dalle Apuane, dai monti veronesi e finanche dalla lontana Istria. Ai legionari congedati vennero assegnati in premio appezzamenti di terreno di forma quadrata, che ancora oggi contraddistinguono il paesaggio, e questi cominciarono a produrre un vino, il Gutturnium, ancora oggi apprezzato.
Il posto è salubre, il clima mite in ogni stagione, ricco di legname, di selvaggina, di pascoli per gli armenti, di sorgenti naturali e termali (Salsomaggiore e Tabiano non sono distanti) e in più ci si può anche divertire incendiando gli idrocarburi (gas metano e petrolio) che sgorgano spontanei dal terreno, fenomeno che sa tanto di magia e capace di richiamare parecchi secoli più tardi l'attenzione anche di Alessandro Volta. E per finire ci si mise pure Plinio, rivelando come a Veleia si contassero non pochi ultracentenari; dal censimento compiuto da Vespasiano nel 72 d.C. risultava infatti che vi risiedevano sei persone che avevano superato i 110 anni – un limite enorme considerato che all'epoca si faceva fatica ad arrivare ai 60-70 – quattro i 120 e un certo Marcus Mutius Marci era arrivato al lusinghiero traguardo dei 140 anni. Errori dell'anagrafe o merito delle acque termali e del buon vino elogiato da Cicerone?
Da centro commerciale e amministrativo di un vasto comprensorio esteso dal fiume Taro al Trebbia, dalla pianura al crinale appenninico, il piccolo municipio diventò in breve tempo anche un ricercato luogo di villeggiatura ante litteram, con i forestieri impegnati a dimostrare la loro gratitudine per la ritrovata vigoria a suon di lapidi, statue e opere pubbliche. Nel 42 d.C ottenne anche il diritto di cittadinanza romana. La posizione defilata sulle colline, più che un inconveniente, finì per rivelarsi ben presto come un enorme pregio, lontana dalle beghe della politica, dai capricci delle legioni, dal passaggio degli eserciti invasori, tanto da non richiedere nemmeno la presenza di mura o di qualsiasi altra opera difensiva, come troviamo invece in tutti gli altri centri coevi.
E per almeno due secoli, dalla tarda età repubblicana alla piena epoca imperiale, Veleia costituì una vera oasi di tranquillità e di prosperità, celata tra le selve dell'Appennino piacentino. Non sappiamo cosa ne decretò il declino nel IV° secolo e la scomparsa definitiva poi: forse una serie di concause, legate al dissolversi dell'impero ed alla fine della pax romana. Ma il fatto di sorgere sulle pendici di due monti chiamati Morìa e Rovinasso, in una zona soggetta a movimenti franosi ed a smottamenti del terreno, potrebbe fornirci una plausibile risposta.
A colpire il visitatore, oltre al contesto bucolico, sono in particolare il Foro, lastricato in arenaria e con tre lati porticati, dove gli spazi venivano dilatati per effetto ottico dalla presenza di pitture murali; sui suoi lati si aprivano botteghe e ambienti pubblici. Era il centro della vita pubblica e privata della città, e in mancanza di un anfiteatro vi si tenevano anche gli spettacoli. Ha restituito varie statue bronzee, tra cui una vittoria alata, ed epigrafi dedicate agli imperatori Domizio, Aureliano, Marco Aurelio e Adriano.
Su un fianco sorgeva la basilica, a navata unica con esedre rettangolari alle testate, dove erano collocate le dodici statue in marmo apuano della famiglia giulio-claudia, ora esposte al Museo di Parma, dono del console e pontefice piacentino Lucio Calpurnio Pisone, fratello della moglie di Giulio Cesare e protettore di Veleia. Interessanti anche le terme, che utilizzavano acque cloruro-sodiche dalle indubbie proprietà terapeutiche (bisognerebbe poter chiedere conferma agli antichi ultracentenari), strutturate nei tre classici ambienti di calidarium, tepidarium e frigidarium, con spogliatoi separati per uomini e donne, dotato di un termopolio, cioè del bar delle terme (è proprio vero che noi moderni non abbiamo inventato nulla), e infine i quartieri residenziali, dove prevale il modello abitativo di domus monofamiliare di tipo italico, composta da diversi vani affacciati sul cortile dell'atrium.
La presenza del mulino e del frantoio ci fanno intuire le abitudini alimentari. Sorprende la modernità e la funzionalità del complesso: tutti gli edifici pubblici e privati erano dotati di fognature e di impianti di riscaldamento: potere dell'ingegneria idraulica romana. Una visita merita infine anche il piccolo Antiquarium, ospitato nell'edificio della direzione: contiene vari corredi provenienti da una vicina necropoli preromana, una scultura mutila in arenaria di uomo barbuto, una patera di vetro murrino, una situla in rame, un mosaico policromo con maschera teatrale dal Foro e una stele in marmo lunense con figura di cacciatore. I reperti più importanti sono però conservati nel Museo Archeologico di Parma.