Egitto: Il Cairo, Luxor e Abu Simbel
Da milioni di anni è la vita per una vasta area di un intero continente. Da migliaia di anni è il Dio, la fertilità, la via di comunicazione, la storia di un popolo che coniuga fascino, mistero, cultura. Il Nilo è tutto questo, ma è anche un fiume, talvolta violentato nel suo maestoso scorrere dalla mano dell’uomo, eppure ancora generoso, fonte di una vita dai forti legami con il passato e la tradizione, supporto per lussuosi alberghi galleggianti che trasportano migliaia di turisti pronti a lasciarsi conquistare dal suo antico richiamo. Trascorsi duecento anni dalle prime temerarie spedizioni europee a caccia di tesori archeologici da scoprire, nel migliore dei casi, o depredare, negli usi più abituali, le materne acque del Nilo oggi scortano, con il loro fluire, migliaia di occhi che si soffermano su templi, tombe e statue di rara bellezza. Eccone un accenno, da nord a sud, senza alcuna pretesa di completezza. Sarebbe impossibile.
Testo e foto di Cristiano Pinotti
Il Cairo: il Museo Egizio e le piramidi di Giza
Una metropoli in terra d'Africa. Quindici milioni di abitanti accalcati all'imbocco del delta del Nilo, perennemente avvolti in un traffico assordante e caotico in cui modernità e tradizione tentano di amalgamarsi non senza fatica. Il Cairo, nel suo complesso, lascia esterrefatti per un susseguirsi di forti e anacronistici contrasti: le feluche scorrono sul placido Nilo sfiorando grandi navi da crociera, allo stesso tempo nelle acque millenarie si specchiano inusitati grattacieli e povere case, mentre dai ristoranti e dagli alberghi i linguaggi dell’occidente si mischiano, senza confondersi, agli aromi di spezie orientali che si levano dai mercati e dai bazar.
Il Cairo è tutto questo, ma è anche un tripudio di arte islamica, con le sue splendide moschee (su tutte quella di Al-Azhar e di Ibn Tulun); di vigore medioevale, con la sua cittadella dominata dalla moschea di Mohammed, di recente costruzione; di cultura con i suoi tanti musei che ne caratterizzano il centro. Il Cairo, malgrado il perverso tentativo di soffocare la bellezza con un'urbanizzazione selvaggia, racchiude la storia e i simboli stessi dell'Egitto. Proprio qui faremo tappa. Nel suo splendido museo e a Giza, sotto le piramidi.
Il museo egizio del Cairo raccoglie la più importante collezione di arte egizia del mondo. All'apparenza si tratta di una banalità, ma per chi conosce la storia di questa terra, il fatto che sulle sponde del Nilo vi siano ancora reperti antichi appare di per sé un miracolo. Invasioni napoleoniche, colonialismo inglese e francese, allegria nel trattare la cosa pubblica da parte di stuoli di presunti statisti locali e la “mania” per l'egittologia che colpì larghe fasce di studiosi, archeologi e avventurieri ottocenteschi, hanno contribuito a sparpagliare per il mondo gran parte delle opere che hanno segnato i millenni della civiltà del Nilo. Eppure proprio a un francese, Auguste Mariette, si deve la sua fondazione, risalente alla metà dell'Ottocento.
Di dimensioni non particolarmente impressionanti, il museo deve la propria eccezionalità al numero e alla qualità dei reperti archeologici, che percorrono l'intera storia dell'antico Egitto: dai più antichi, risalenti a tre millenni prima di Cristo, ai meravigliosi ritratti greco-romani di al-Fayoum del II secolo d.C. Tantissime le opere d'arte degne di una citazione: la straordinaria statua lignea di Ka-Aper; le statue del periodo di Akhenaton, conservate nella sala Amarna, con i caratteristici volti allungati e il prominente ventre; il gruppo di Ra-Hotep e Nofret; il nano Seneb e la sua famiglia; i modellini di soldato di Assiut. E poi infiniti capolavori che echeggiano di storia: la statua in diorite nera di Chefren, quella della mitica regina Hatshepsut, il volto di attualissima bellezza di Nefertiti, la statua e l'altare di Akenaton, il faraone “eretico” che impose il culto del disco solare, la minuscola statuetta di Cheope, il grande costruttore.
La sala delle mummie, con ingresso riservato attraverso il pagamento di un ulteriore biglietto, fa rivivere il volto e le membra di tanti artefici della storia egizia, fermati nel tempo dalla maestria dei maestri imbalsamatori e dal clima tipico della valle dei re. Di rilievo la figura, rinsecchita dal tempo, di Ramses II, forse il più grande re del basso e dell'alto Egitto, grande condottiero e magistrale comunicatore.
Infiniti tesori, che sembrano fare da cornice al capolavoro assoluto, al catalizzatore di tutti gli sguardi: la tomba di Tutankhamon. Un faraone tra i più insignificanti, morto giovanissimo, sepolto in tutta fretta in una delle più dimesse tombe della valle dei re. Eppure, grazie alla scoperta di Howard Carter, avvenuta nel 1922, oggi è il più famoso faraone dell'intera storia dell'Egitto. La tomba, come si presenta ancora oggi nelle affascinanti fotografie in bianco e nero scattate al momento della scoperta, era composta da un'angusta camera funeraria interamente occupata da sette sarcofagi inseriti l'uno nell'altro, da un'anticamera e da una minuta camera del tesoro, entrambe ricolme di oggetti alla rinfusa, carri smontati, reperti di inestimabile valore accatastati per l'ultimo viaggio del faraone.
Oggi tutti questi tesori si mostrano, avvolti nella loro eterna bellezza, agli occhi dei visitatori che affollano le sale del museo del Cairo. Il tesoro è una meraviglia continua: vasi canopi in alabastro, legni dorati, il trono del faraone in legno rivestito d'oro e impreziosito da pietre e paste vitree, gli splendidi sarcofagi. Infine il capolavoro: la maschera funebre, in oro e pietre preziose, che riproduce i tratti del giovane faraone. Un quantitativo così elevato di oggetti d'arte da lasciare interdetti per la magnificenza ma con il rimpianto di essere stati privati della mirabolante bellezza di tutte le altre tombe reali, profanate dal tempo e dalle avide mani degli uomini.
Le piramidi sono un autentico patrimonio dell'umanità, non perché l'abbia stabilito un ente internazionale, ma perché la loro stessa esistenza ha contribuito alla nascita di miti, misteri, culti religiosi. Attorno a queste mirabolanti costruzioni si sono sprecate le più fantasiose teorie esoteriche e soprannaturali. Suggestioni che, se ben poco hanno di scientifico, molto hanno a che fare con il bisogno, tutto umano, della ricerca di "un senso" e che hanno contribuito alla mitizzazione di Giza e dei suoi fantastici monumenti.
La piana di Giza, in effetti, è un luogo unico al mondo. La città con il suo incessante vociare scompare all'istante, mentre dalla sabbia del deserto sorgono i capolavori dell'ingegneria del mondo antico: la grande piramide di Cheope, la piramide di Chefren, quella di Macerino e ancora l'enigmatico volto della Sfinge. A poca distanza, le piccole piramidi delle regine e le mastabe dei familiari e dei cortigiani, vicini al faraone anche nella morte.
Davanti alla piramide di Cheope si prova un'ineguagliabile sensazione di piccolezza non solo nei confronti del monumento, ma verso il suo significato recondito. E allora vale la pena di estraniarsi dai vocianti cammellieri, che tentano di estorcere un'improbabile cammellata tra le dune di Giza, di eliminare tutto il superfluo: i turisti, le guide, i tanti poliziotti e di rimanere da soli, con le scarpe nel deserto, a contemplare la bellezza che scaturisce dalla pietra calcarea, frutto di maestranze abili e ben pagate e non, come vuole la leggenda, di schiavi costretti al lavoro dall'azione della frusta.
Una metropoli in terra d'Africa. Quindici milioni di abitanti accalcati all'imbocco del delta del Nilo, perennemente avvolti in un traffico assordante e caotico in cui modernità e tradizione tentano di amalgamarsi non senza fatica. Il Cairo, nel suo complesso, lascia esterrefatti per un susseguirsi di forti e anacronistici contrasti: le feluche scorrono sul placido Nilo sfiorando grandi navi da crociera, allo stesso tempo nelle acque millenarie si specchiano inusitati grattacieli e povere case, mentre dai ristoranti e dagli alberghi i linguaggi dell’occidente si mischiano, senza confondersi, agli aromi di spezie orientali che si levano dai mercati e dai bazar.
Il Cairo è tutto questo, ma è anche un tripudio di arte islamica, con le sue splendide moschee (su tutte quella di Al-Azhar e di Ibn Tulun); di vigore medioevale, con la sua cittadella dominata dalla moschea di Mohammed, di recente costruzione; di cultura con i suoi tanti musei che ne caratterizzano il centro. Il Cairo, malgrado il perverso tentativo di soffocare la bellezza con un'urbanizzazione selvaggia, racchiude la storia e i simboli stessi dell'Egitto. Proprio qui faremo tappa. Nel suo splendido museo e a Giza, sotto le piramidi.
Il museo egizio del Cairo raccoglie la più importante collezione di arte egizia del mondo. All'apparenza si tratta di una banalità, ma per chi conosce la storia di questa terra, il fatto che sulle sponde del Nilo vi siano ancora reperti antichi appare di per sé un miracolo. Invasioni napoleoniche, colonialismo inglese e francese, allegria nel trattare la cosa pubblica da parte di stuoli di presunti statisti locali e la “mania” per l'egittologia che colpì larghe fasce di studiosi, archeologi e avventurieri ottocenteschi, hanno contribuito a sparpagliare per il mondo gran parte delle opere che hanno segnato i millenni della civiltà del Nilo. Eppure proprio a un francese, Auguste Mariette, si deve la sua fondazione, risalente alla metà dell'Ottocento.
Di dimensioni non particolarmente impressionanti, il museo deve la propria eccezionalità al numero e alla qualità dei reperti archeologici, che percorrono l'intera storia dell'antico Egitto: dai più antichi, risalenti a tre millenni prima di Cristo, ai meravigliosi ritratti greco-romani di al-Fayoum del II secolo d.C. Tantissime le opere d'arte degne di una citazione: la straordinaria statua lignea di Ka-Aper; le statue del periodo di Akhenaton, conservate nella sala Amarna, con i caratteristici volti allungati e il prominente ventre; il gruppo di Ra-Hotep e Nofret; il nano Seneb e la sua famiglia; i modellini di soldato di Assiut. E poi infiniti capolavori che echeggiano di storia: la statua in diorite nera di Chefren, quella della mitica regina Hatshepsut, il volto di attualissima bellezza di Nefertiti, la statua e l'altare di Akenaton, il faraone “eretico” che impose il culto del disco solare, la minuscola statuetta di Cheope, il grande costruttore.
La sala delle mummie, con ingresso riservato attraverso il pagamento di un ulteriore biglietto, fa rivivere il volto e le membra di tanti artefici della storia egizia, fermati nel tempo dalla maestria dei maestri imbalsamatori e dal clima tipico della valle dei re. Di rilievo la figura, rinsecchita dal tempo, di Ramses II, forse il più grande re del basso e dell'alto Egitto, grande condottiero e magistrale comunicatore.
Infiniti tesori, che sembrano fare da cornice al capolavoro assoluto, al catalizzatore di tutti gli sguardi: la tomba di Tutankhamon. Un faraone tra i più insignificanti, morto giovanissimo, sepolto in tutta fretta in una delle più dimesse tombe della valle dei re. Eppure, grazie alla scoperta di Howard Carter, avvenuta nel 1922, oggi è il più famoso faraone dell'intera storia dell'Egitto. La tomba, come si presenta ancora oggi nelle affascinanti fotografie in bianco e nero scattate al momento della scoperta, era composta da un'angusta camera funeraria interamente occupata da sette sarcofagi inseriti l'uno nell'altro, da un'anticamera e da una minuta camera del tesoro, entrambe ricolme di oggetti alla rinfusa, carri smontati, reperti di inestimabile valore accatastati per l'ultimo viaggio del faraone.
Oggi tutti questi tesori si mostrano, avvolti nella loro eterna bellezza, agli occhi dei visitatori che affollano le sale del museo del Cairo. Il tesoro è una meraviglia continua: vasi canopi in alabastro, legni dorati, il trono del faraone in legno rivestito d'oro e impreziosito da pietre e paste vitree, gli splendidi sarcofagi. Infine il capolavoro: la maschera funebre, in oro e pietre preziose, che riproduce i tratti del giovane faraone. Un quantitativo così elevato di oggetti d'arte da lasciare interdetti per la magnificenza ma con il rimpianto di essere stati privati della mirabolante bellezza di tutte le altre tombe reali, profanate dal tempo e dalle avide mani degli uomini.
Le piramidi sono un autentico patrimonio dell'umanità, non perché l'abbia stabilito un ente internazionale, ma perché la loro stessa esistenza ha contribuito alla nascita di miti, misteri, culti religiosi. Attorno a queste mirabolanti costruzioni si sono sprecate le più fantasiose teorie esoteriche e soprannaturali. Suggestioni che, se ben poco hanno di scientifico, molto hanno a che fare con il bisogno, tutto umano, della ricerca di "un senso" e che hanno contribuito alla mitizzazione di Giza e dei suoi fantastici monumenti.
La piana di Giza, in effetti, è un luogo unico al mondo. La città con il suo incessante vociare scompare all'istante, mentre dalla sabbia del deserto sorgono i capolavori dell'ingegneria del mondo antico: la grande piramide di Cheope, la piramide di Chefren, quella di Macerino e ancora l'enigmatico volto della Sfinge. A poca distanza, le piccole piramidi delle regine e le mastabe dei familiari e dei cortigiani, vicini al faraone anche nella morte.
Davanti alla piramide di Cheope si prova un'ineguagliabile sensazione di piccolezza non solo nei confronti del monumento, ma verso il suo significato recondito. E allora vale la pena di estraniarsi dai vocianti cammellieri, che tentano di estorcere un'improbabile cammellata tra le dune di Giza, di eliminare tutto il superfluo: i turisti, le guide, i tanti poliziotti e di rimanere da soli, con le scarpe nel deserto, a contemplare la bellezza che scaturisce dalla pietra calcarea, frutto di maestranze abili e ben pagate e non, come vuole la leggenda, di schiavi costretti al lavoro dall'azione della frusta.
Luxor e Karnak
Di Tebe dalle cento porte non è rimasta pietra. La capitale dell’Egitto nel suo periodo di massimo splendore è andata completamente perduta. Due le eccezioni a questa regola imposta dalla povertà dei materiali utilizzati: i complessi di Luxor e Karnak, templi che incarnano la religiosità, la potenza e il misticismo del popolo dei faraoni. Per comprenderne appieno l’impatto socio-economico si deve però operare un certo sforzo di fantasia: ritrovare i colori di 3.500 anni fa, immaginare i grandiosi viali di sfingi collegare i due centri di culto, scorgere la funzione mistica e religiosa che, nella tipica forma del cannocchiale, porta, di magnificenza in magnificenza, nel punto più sacro e imperscrutabile.
All’interno dei templi tutto si amalgama e si confonde: religione, storia, politica. Così, a fianco dell’immancabile Ramses II, appare Alessandro Magno tramutato in faraone piamente devoto agli dei dell’Egitto e poi ancora un santuario romano e una moschea si alternano ai cartigli dei grandi re della terra del Nilo. Con gli occhi della storia, le pareti divengono documenti, preziose testimonianze di una comunicazione di massa interpretata attraverso le pratiche religiose.
Il complesso sacro di Luxor è un imponente insieme di edifici che armonicamente occludono la vista nel sancta sanctorum. L’ingresso, come tradizione in tutti i templi egizi, si apre con due bastioni di enormi proporzioni, sorvegliati da altrettante gigantesche statue raffiguranti il grande costruttore, Ramses II. Sulla sinistra un meraviglioso obelisco di oltre 25 m (per vedere il secondo ci si deve recare in Place de la Concorde a Parigi). Oltrepassati i piloni di ingresso si entra nel cortile di Ramses, con la cappella della triade tebana, il colonnato e l’ingresso della moschea di Abu-el-Haggag. Un nuovo, monumentale, ingresso introduce all’imponente colonnato processionale di Amenhotep III.
Stiamo entrando nella parte più sacra del complesso con il vasto cortile a peristilio dalle splendide colonne fascicolate a ricordo del papiro, la pianta più importante, perlomeno a livello culturale, dell’intero Egitto. Superato il cortile ecco il santuario romano; la cosiddetta sala della natività, che ricorda il concepimento divino di Amenofi III; il tempietto per la barca sacra e infine il cuore del santuario in cui Amenhotep è al cospetto di Amon, Horus e Atum. Poco distante, organizzato secondo criteri di moderna efficienza, il museo di Luxor con reperti dell’area tebana e una collezione proveniente dal Cairo.
Tre chilometri separano Luxor da Karnak, il massimo luogo di culto di Amon, divinità che soppianta il dio del sole, Ra. Al suo grandioso tempio operarono moltissimi faraoni di sei dinastie reali: di difficile lettura, comprende differenti edifici religiosi accomunati dalla medesima cinta di Amon. Senza una visione dall’alto, comprendere la grandiosità del complesso sacro è quasi impossibile. Allora è forse il caso di perdersi tra la sua selva di colonne, tra i suoi infiniti bassorilievi, scovare cartigli faraonici, ammirare obelischi che sfidano le leggi della fisica e della meccanica, cercare di comprendere la religiosità, densa di significati politici e di potere.
Ancora una volta è la grandiosità a prendere il sopravvento: piloni di svariate decine di metri fanno da ingresso a monumentali colonnati, a statue di proporzioni inaudite, a processioni di sfingi dalla testa di ariete, a divinità dolcissime e sanguinarie, intrise di tutte le passioni umane. Eccolo, forse, il filo conduttore che unisce il mondo antico. Le divinità – egizie, greche, romane - sono sorta di superuomini e superdonne dai poteri eccezionali, ma con cuore e cervello terreno, umanissimo e per questo ricolmo di virtù e difetti.
A Karnak i motivi di interesse si sprecano: la sala ipostila di Ramses con i suoi ininterrotti rilievi, i due magnifici obelischi di Thutmosi I e della regina Hatshepsut, i colori della cappella di Hatshepsut, i pilastri osiriaci, e ancora quelli con i simboli dell’alto e del basso Egitto, o il lago sacro che ingentilisce l’intero complesso. Basta lasciarsi andare, farsi conquistare da un’arte e da una cultura che ha valicato i secoli.
Il tempio funerario di Hatshepsut è un monumento unico al mondo incastonato in un’alta parete rocciosa che ne esalta la spettacolarità scenica. Terrazze degradanti collegate da ampie e scenografiche scalinate. Il sentimento architettonico si fonde con la natura aspra e selvaggia del luogo, in un connubio che è legame ma non unione, in cui le strutture dell’uomo si appoggiano alla roccia ma non la inglobano, utilizzando la bellezza della natura come sfondo della bellezza costruttiva. Qui la genialità dell’architetto Senmut magnifica la grandezza della regina Hatshepsut. Già, perché l’Egitto, con largo anticipo sull’evoluzione del mondo, seppe essere dominato da una donna, certo ritratta con barba posticcia, ma sempre regina, padrona assoluta di un regno immenso, ricchissimo sotto ogni punto di vista.
Una landa per serpenti e scorpioni erode gli scoscesi fianchi di montagne rossicce che si incendiano al tramontare del disco solare. È la Valle dei Re, un altrove che nasconde sacralità, misticismo, la visione metafisica di un intero popolo. Il Nuovo Regno scandisce l’abbandono della regolarità piramidale, in luogo di una netta separazione tra l’area funeraria e quella di culto. La tomba del re non è più una costruzione imponente che si staglia verso il cielo (queste sembianze sono lasciate ai templi funerari), diviene altresì una canna di flauto che penetra le viscere della terra e accompagna, tra mirabili dipinti dai vividi colori, l’anima del faraone verso l’incontro con la divinità.
La spettacolarità e la grandiosità delle forme non trovano spazio nella Valle dei Re, qui vive la sostanza, espressa in affreschi e rilievi che trasferiscono sull’intonaco il “libro dei Morti”, oppure trasfigurano l’esistenza del sovrano in una continua ispirazione divina. Gli dei dell’Egitto dialogano con re e regine, riportando ai nostri occhi una vita quotidiana di migliaia di anni fa e mischiandosi, in un’affascinante e incredibile gioco, con sofisticate teorie metafisiche e religiose che rivivono in un corpus iconografico-sepolcrale si infinito interesse e bellezza.
Ogni tomba racconta qualcosa di eccezionale, nella delicatezza dei gesti e dei lineamenti, o nella vivacità delle sfumature cromatiche, o ancora nella sacralità che delinea ogni tratto, ogni singola figura deputata ad accompagnare il sovrano nel suo ultimo e più importante viaggio. Per ovvie ragioni di sicurezza e di conservazione le tombe non sono tutte aperte al pubblico, ma alternano giorni di turismo a giorni in cui il silenzio torna a regnare lungo i cunicoli che portano all’incontro con il divino.
Scendiamo più a sud. Siamo ad Edfu, dove Horo, il dio-falco, combatté contro Seth, l’uccisore di Osiride, e dove si può ammirare uno dei templi più grandi e meglio conservati dell’intero Egitto. Di epoca tolemaica, mantiene, eccezion fatta per l’insolito orientamento nord-sud, tutte le caratteristiche classiche del tempio egizio. Gli enormi piloni d’ingresso, sono preceduti da due magnifiche statue di Horo fregiato con la doppia corona. Sessanta chilometri separano Edfu dal tempio di Kom Ombo, originalmente dedicato a due divinità: Sobek, il dio Coccodrillo, e Haroeri (Horo il vecchio) a testa di falcone. La sua costruzione, iniziata durante la XVIII dinastia si concluse addirittura in epoca imperiale romana. Completamente simmetrico, presenta due entrate e altrettanti santuari per le due divinità venerate.
Abu Simbel
Due volte all'anno un raggio di sole penetra la roccia, cerca un pertugio tra graffiti, colonne, dipinti e illumina il volto della statua del faraone. Accade il 21 febbraio, giorno della sua nascita, ed il 22 ottobre, giorno della sua incoronazione. Il volto è quello di Ramses II, terzo re della XIX dinastia, il faraone - insieme a Tutankhamon, ma certo non per gli stessi motivi - più celebre dell’intera storia dell’antico Egitto, che ha governato il popolo del Nilo per ben 67 anni. Ramses II è l’emblema stesso del potere e del magnetismo evocato dai faraoni. Un uomo che ha inciso il proprio nome su tutti i templi della valle del Nilo, che si è reso immortale attraverso l’architettura, la pittura e la sottile arma della propaganda, cui queste due nobili arti, spesso, e non solo nell’Egitto del Nuovo Regno, si sottomettono.
Ramses II è realtà e leggenda. Figlio del grande Sethi I, giovanissimo, divenne faraone dell’alto e del basso Egitto. Fu marito delle grandi spose reali Isisnofret, che gli diede il successore Merenptah, e Nefertari, la più bella, l’ombra femminile che lo seguiva ovunque, sempre al suo fianco, anche nelle raffigurazioni sui templi. La carriera di amatore del faraone, un uomo eccezionale in ogni sua manifestazione, non poteva restringersi alle sole spose reali, le sue tante mogli secondarie e le innumerevoli concubine gli diedero oltre cento figli, molti dei quali non sopravvissero al padre.
Ramses II è un sovrano guerriero che, sul suo veloce carro da guerra, affronta i nemici, li sottomette, ne fa strage. Culmine della sua attività di guerriero è la mitica battaglia di Qadesh, celebrata su tutti i templi dell’antico Egitto. È il 1275 a.C., Roma e Atene si nascondono ancora nelle pieghe della preistoria occidentale; il medio oriente è una terra con secoli di civiltà ed è asservita a due superpotenze: gli egizi, comandati da Ramses e gli Hittiti, di Muwatallish. Due regni che faticano a convivere, che chiedono spazio e che, alla fine si affrontano alle porte di una città della Siria.
Ma come spesso accade in queste epiche battaglie, non vi sono né vincitori né vinti. Da una parte e dall’altra se ne va un certo numero di carri da guerra, vengono spazzati via un po’ di cavalli e qualche migliaio di uomini resta riverso tra la sabbia del deserto. Eppure la macchina di propaganda messa in piedi dal sovrano – quante cose insegnerebbe la storia, se si avesse la pazienza di leggerla a dovere – ha l’abilità di trasformare un faticoso “pareggio” in una grande vittoria, che innalza il più grande condottiero dell’intero Egitto.
Ramses II, senza nessun aiuto surrettizio, è un grande costruttore. L’Egitto vede la sua mano in tutte le più importanti opere architettoniche. A Ramses dobbiamo uno dei massimi capolavori dell’antichità: i templi di Abu Simbel. Poco distante dal Lago Nasser, circa 300 chilometri a sud di Assuan, il complesso di Abu Simbel, costruito per celebrare la “vittoria di Qadesh” si compone di due templi rupestri: il primo, più grande, ufficialmente dedicato alla triade Amon Ra, Harmakhis e Ptah; il secondo, di minore impatto scenografico, è un’offerta ad Hathor. In realtà entrambe le costruzioni sono la celebrazione di un uomo/dio, di Ramses II, che siede, pari tra pari, nel sancta sanctorum del tempio maggiore, e della sua moglie preferita, Nefertari, che accoglie i visitatori dalla facciata del tempio più piccolo.
In pieno deserto nubiano, un piccolo pianoro sulle rive del lago Nasser ospita la maestosità di Ramses II. La facciata, spettacolare, è un omaggio alla vanità del Faraone. Quattro enormi statue, di 21 metri di altezza, spiazzano il visitatore. Ai piedi del faraone, molto più piccoli, ecco i suoi familiari, la madre, alcuni figli e la sua preferita, Nefertari. Da lontano, non ci si rende conto delle proporzioni, ma avvicinandosi ci si sente schiacciati, impotenti di fronte al sogno, realizzato, di un uomo che si eleva a dio.
Oltrepassato l’ingresso, si entra in un atrio scandito da otto possenti colonne che raffigurano il sovrano sotto le sembianze del dio Osiride. La luce, abbacinante all’esterno, ora diviene intima, raccolta. Siamo in una chiesa di tremila anni fa. Tutt’attorno sono scolpite le gesta del faraone, gli artisti egizi ci mostrano, con una chiara intonazione di parte, la battaglia di Qadesh: Ramses in trono, Ramses che colpisce, Ramses in posa plastica che tira con l’arco a bordo del suo splendido carro da battaglia.
Nel secondo atrio le pareti presentano ancora parte dei colori originari, anche se la decorazione non raggiunge i livelli artistici della prima stanza. Ma qui gli occhi sono attratti dalle statue di culto, il sancta sanctorum, in cui siedono Ra-Harakhte, Ptah, Amon-Ra e Ramses stesso, deificato. Qui, come accennato, due volte all'anno, il 21 febbraio e il 22 ottobre, i raggi del sole illuminano soltanto il volto del faraone; durante tutto l’anno quando il sole entra nel tempio, oltre a Ramses, illumina le statue di Ra e Ammone. Solo Ptah rimane in ombra, ma il dio delle tenebre non sa che farsene della luce del sole.
Poche centinaia di metri ed ecco un nuovo, straordinario, capolavoro scavato nella roccia: il tempio di Hathor e Nefertari. Se raffrontato con quello di Ramses, è certo meno imponente; giunti ai suoi piedi ci si trova comunque a naso all’insù ad osservare le sei statue, di 10 metri d’altezza, che ne compongono la facciata: quattro raffigurano Ramses e due, di uguale altezza, Nefertari.
Dall’ingresso si accede a una sala a tre navate, suddivisa da sei grandi pilastri che riproducono la testa della dea Hathor. I pilastri e le pareti sono ricoperte da eccezionali bassorilievi policromi a carattere religioso: Ramses e Nefertari sono più volte ritratti nell'atto di compiere offerte nei confronti di numerose divinità. Horos, Seth, Anukis, Maat, Iside ci riportano in una dimensione religiosa incredibilmente complessa, in cui la dimensione della morte e dell’aldilà è qualcosa di palpabile, tangibile, estremamente vicino all'uomo e alla sua vita.
Abu Simbel e la sua straordinaria carica religiosa e umana affondano le loro origini in un mondo cronologicamente lontanissimo. Il suo splendore ha superato millenni per regalarci, ancora oggi, emozioni che non hanno pari. Eppure anche questo capolavoro, che pare sfidare le leggi del tempo e della natura, ha vissuto periodi decisamente difficili. Pochi anni dopo la sua costruzione fu danneggiato da un terremoto, e l’enorme statua del sovrano brutalmente deturpata ne è la più drammatica testimonianza. Più tardi l’intera area fu abbandonata al deserto e la sabbia, inesorabile, lo seppellì quasi per intero.
Nei primi anni dell’Ottocento, lo studioso svizzero Burckhardt vide così spuntare tra la sabbia solo le enormi teste dei colossi della facciata. Ma in quel periodo l’egittologia era una specie di mania collettiva e una tale scoperta non poteva non suscitare l’interesse di personaggi del calibro dell’italiano Belzoni che, primo uomo dopo millenni, riuscì a entrare nel santuario.
In pieno Novecento un nuovo pericolo: è il 1960 e il presidente egiziano Nasser dà il via alla costruzione della grande diga di Assuan, che prevede la creazione di un enorme bacino artificiale. Un grande progetto per l’Egitto, ma un’indicibile minaccia per questi capolavori che rischiano di essere letteralmente sommersi. Fortunatamente interviene l'Unesco: in cinque anni di lavoro i templi di Abu Simbel vennero numerati, catalogati, smontati pezzo per pezzo, quindi ricostruiti su un terrapieno più elevato, mantenendo persino l'originario orientamento rispetto agli astri, che permette al sole di illuminare il volto del suo figlio prediletto.
Di Tebe dalle cento porte non è rimasta pietra. La capitale dell’Egitto nel suo periodo di massimo splendore è andata completamente perduta. Due le eccezioni a questa regola imposta dalla povertà dei materiali utilizzati: i complessi di Luxor e Karnak, templi che incarnano la religiosità, la potenza e il misticismo del popolo dei faraoni. Per comprenderne appieno l’impatto socio-economico si deve però operare un certo sforzo di fantasia: ritrovare i colori di 3.500 anni fa, immaginare i grandiosi viali di sfingi collegare i due centri di culto, scorgere la funzione mistica e religiosa che, nella tipica forma del cannocchiale, porta, di magnificenza in magnificenza, nel punto più sacro e imperscrutabile.
All’interno dei templi tutto si amalgama e si confonde: religione, storia, politica. Così, a fianco dell’immancabile Ramses II, appare Alessandro Magno tramutato in faraone piamente devoto agli dei dell’Egitto e poi ancora un santuario romano e una moschea si alternano ai cartigli dei grandi re della terra del Nilo. Con gli occhi della storia, le pareti divengono documenti, preziose testimonianze di una comunicazione di massa interpretata attraverso le pratiche religiose.
Il complesso sacro di Luxor è un imponente insieme di edifici che armonicamente occludono la vista nel sancta sanctorum. L’ingresso, come tradizione in tutti i templi egizi, si apre con due bastioni di enormi proporzioni, sorvegliati da altrettante gigantesche statue raffiguranti il grande costruttore, Ramses II. Sulla sinistra un meraviglioso obelisco di oltre 25 m (per vedere il secondo ci si deve recare in Place de la Concorde a Parigi). Oltrepassati i piloni di ingresso si entra nel cortile di Ramses, con la cappella della triade tebana, il colonnato e l’ingresso della moschea di Abu-el-Haggag. Un nuovo, monumentale, ingresso introduce all’imponente colonnato processionale di Amenhotep III.
Stiamo entrando nella parte più sacra del complesso con il vasto cortile a peristilio dalle splendide colonne fascicolate a ricordo del papiro, la pianta più importante, perlomeno a livello culturale, dell’intero Egitto. Superato il cortile ecco il santuario romano; la cosiddetta sala della natività, che ricorda il concepimento divino di Amenofi III; il tempietto per la barca sacra e infine il cuore del santuario in cui Amenhotep è al cospetto di Amon, Horus e Atum. Poco distante, organizzato secondo criteri di moderna efficienza, il museo di Luxor con reperti dell’area tebana e una collezione proveniente dal Cairo.
Tre chilometri separano Luxor da Karnak, il massimo luogo di culto di Amon, divinità che soppianta il dio del sole, Ra. Al suo grandioso tempio operarono moltissimi faraoni di sei dinastie reali: di difficile lettura, comprende differenti edifici religiosi accomunati dalla medesima cinta di Amon. Senza una visione dall’alto, comprendere la grandiosità del complesso sacro è quasi impossibile. Allora è forse il caso di perdersi tra la sua selva di colonne, tra i suoi infiniti bassorilievi, scovare cartigli faraonici, ammirare obelischi che sfidano le leggi della fisica e della meccanica, cercare di comprendere la religiosità, densa di significati politici e di potere.
Ancora una volta è la grandiosità a prendere il sopravvento: piloni di svariate decine di metri fanno da ingresso a monumentali colonnati, a statue di proporzioni inaudite, a processioni di sfingi dalla testa di ariete, a divinità dolcissime e sanguinarie, intrise di tutte le passioni umane. Eccolo, forse, il filo conduttore che unisce il mondo antico. Le divinità – egizie, greche, romane - sono sorta di superuomini e superdonne dai poteri eccezionali, ma con cuore e cervello terreno, umanissimo e per questo ricolmo di virtù e difetti.
A Karnak i motivi di interesse si sprecano: la sala ipostila di Ramses con i suoi ininterrotti rilievi, i due magnifici obelischi di Thutmosi I e della regina Hatshepsut, i colori della cappella di Hatshepsut, i pilastri osiriaci, e ancora quelli con i simboli dell’alto e del basso Egitto, o il lago sacro che ingentilisce l’intero complesso. Basta lasciarsi andare, farsi conquistare da un’arte e da una cultura che ha valicato i secoli.
Il tempio funerario di Hatshepsut è un monumento unico al mondo incastonato in un’alta parete rocciosa che ne esalta la spettacolarità scenica. Terrazze degradanti collegate da ampie e scenografiche scalinate. Il sentimento architettonico si fonde con la natura aspra e selvaggia del luogo, in un connubio che è legame ma non unione, in cui le strutture dell’uomo si appoggiano alla roccia ma non la inglobano, utilizzando la bellezza della natura come sfondo della bellezza costruttiva. Qui la genialità dell’architetto Senmut magnifica la grandezza della regina Hatshepsut. Già, perché l’Egitto, con largo anticipo sull’evoluzione del mondo, seppe essere dominato da una donna, certo ritratta con barba posticcia, ma sempre regina, padrona assoluta di un regno immenso, ricchissimo sotto ogni punto di vista.
Una landa per serpenti e scorpioni erode gli scoscesi fianchi di montagne rossicce che si incendiano al tramontare del disco solare. È la Valle dei Re, un altrove che nasconde sacralità, misticismo, la visione metafisica di un intero popolo. Il Nuovo Regno scandisce l’abbandono della regolarità piramidale, in luogo di una netta separazione tra l’area funeraria e quella di culto. La tomba del re non è più una costruzione imponente che si staglia verso il cielo (queste sembianze sono lasciate ai templi funerari), diviene altresì una canna di flauto che penetra le viscere della terra e accompagna, tra mirabili dipinti dai vividi colori, l’anima del faraone verso l’incontro con la divinità.
La spettacolarità e la grandiosità delle forme non trovano spazio nella Valle dei Re, qui vive la sostanza, espressa in affreschi e rilievi che trasferiscono sull’intonaco il “libro dei Morti”, oppure trasfigurano l’esistenza del sovrano in una continua ispirazione divina. Gli dei dell’Egitto dialogano con re e regine, riportando ai nostri occhi una vita quotidiana di migliaia di anni fa e mischiandosi, in un’affascinante e incredibile gioco, con sofisticate teorie metafisiche e religiose che rivivono in un corpus iconografico-sepolcrale si infinito interesse e bellezza.
Ogni tomba racconta qualcosa di eccezionale, nella delicatezza dei gesti e dei lineamenti, o nella vivacità delle sfumature cromatiche, o ancora nella sacralità che delinea ogni tratto, ogni singola figura deputata ad accompagnare il sovrano nel suo ultimo e più importante viaggio. Per ovvie ragioni di sicurezza e di conservazione le tombe non sono tutte aperte al pubblico, ma alternano giorni di turismo a giorni in cui il silenzio torna a regnare lungo i cunicoli che portano all’incontro con il divino.
Scendiamo più a sud. Siamo ad Edfu, dove Horo, il dio-falco, combatté contro Seth, l’uccisore di Osiride, e dove si può ammirare uno dei templi più grandi e meglio conservati dell’intero Egitto. Di epoca tolemaica, mantiene, eccezion fatta per l’insolito orientamento nord-sud, tutte le caratteristiche classiche del tempio egizio. Gli enormi piloni d’ingresso, sono preceduti da due magnifiche statue di Horo fregiato con la doppia corona. Sessanta chilometri separano Edfu dal tempio di Kom Ombo, originalmente dedicato a due divinità: Sobek, il dio Coccodrillo, e Haroeri (Horo il vecchio) a testa di falcone. La sua costruzione, iniziata durante la XVIII dinastia si concluse addirittura in epoca imperiale romana. Completamente simmetrico, presenta due entrate e altrettanti santuari per le due divinità venerate.
Abu Simbel
Due volte all'anno un raggio di sole penetra la roccia, cerca un pertugio tra graffiti, colonne, dipinti e illumina il volto della statua del faraone. Accade il 21 febbraio, giorno della sua nascita, ed il 22 ottobre, giorno della sua incoronazione. Il volto è quello di Ramses II, terzo re della XIX dinastia, il faraone - insieme a Tutankhamon, ma certo non per gli stessi motivi - più celebre dell’intera storia dell’antico Egitto, che ha governato il popolo del Nilo per ben 67 anni. Ramses II è l’emblema stesso del potere e del magnetismo evocato dai faraoni. Un uomo che ha inciso il proprio nome su tutti i templi della valle del Nilo, che si è reso immortale attraverso l’architettura, la pittura e la sottile arma della propaganda, cui queste due nobili arti, spesso, e non solo nell’Egitto del Nuovo Regno, si sottomettono.
Ramses II è realtà e leggenda. Figlio del grande Sethi I, giovanissimo, divenne faraone dell’alto e del basso Egitto. Fu marito delle grandi spose reali Isisnofret, che gli diede il successore Merenptah, e Nefertari, la più bella, l’ombra femminile che lo seguiva ovunque, sempre al suo fianco, anche nelle raffigurazioni sui templi. La carriera di amatore del faraone, un uomo eccezionale in ogni sua manifestazione, non poteva restringersi alle sole spose reali, le sue tante mogli secondarie e le innumerevoli concubine gli diedero oltre cento figli, molti dei quali non sopravvissero al padre.
Ramses II è un sovrano guerriero che, sul suo veloce carro da guerra, affronta i nemici, li sottomette, ne fa strage. Culmine della sua attività di guerriero è la mitica battaglia di Qadesh, celebrata su tutti i templi dell’antico Egitto. È il 1275 a.C., Roma e Atene si nascondono ancora nelle pieghe della preistoria occidentale; il medio oriente è una terra con secoli di civiltà ed è asservita a due superpotenze: gli egizi, comandati da Ramses e gli Hittiti, di Muwatallish. Due regni che faticano a convivere, che chiedono spazio e che, alla fine si affrontano alle porte di una città della Siria.
Ma come spesso accade in queste epiche battaglie, non vi sono né vincitori né vinti. Da una parte e dall’altra se ne va un certo numero di carri da guerra, vengono spazzati via un po’ di cavalli e qualche migliaio di uomini resta riverso tra la sabbia del deserto. Eppure la macchina di propaganda messa in piedi dal sovrano – quante cose insegnerebbe la storia, se si avesse la pazienza di leggerla a dovere – ha l’abilità di trasformare un faticoso “pareggio” in una grande vittoria, che innalza il più grande condottiero dell’intero Egitto.
Ramses II, senza nessun aiuto surrettizio, è un grande costruttore. L’Egitto vede la sua mano in tutte le più importanti opere architettoniche. A Ramses dobbiamo uno dei massimi capolavori dell’antichità: i templi di Abu Simbel. Poco distante dal Lago Nasser, circa 300 chilometri a sud di Assuan, il complesso di Abu Simbel, costruito per celebrare la “vittoria di Qadesh” si compone di due templi rupestri: il primo, più grande, ufficialmente dedicato alla triade Amon Ra, Harmakhis e Ptah; il secondo, di minore impatto scenografico, è un’offerta ad Hathor. In realtà entrambe le costruzioni sono la celebrazione di un uomo/dio, di Ramses II, che siede, pari tra pari, nel sancta sanctorum del tempio maggiore, e della sua moglie preferita, Nefertari, che accoglie i visitatori dalla facciata del tempio più piccolo.
In pieno deserto nubiano, un piccolo pianoro sulle rive del lago Nasser ospita la maestosità di Ramses II. La facciata, spettacolare, è un omaggio alla vanità del Faraone. Quattro enormi statue, di 21 metri di altezza, spiazzano il visitatore. Ai piedi del faraone, molto più piccoli, ecco i suoi familiari, la madre, alcuni figli e la sua preferita, Nefertari. Da lontano, non ci si rende conto delle proporzioni, ma avvicinandosi ci si sente schiacciati, impotenti di fronte al sogno, realizzato, di un uomo che si eleva a dio.
Oltrepassato l’ingresso, si entra in un atrio scandito da otto possenti colonne che raffigurano il sovrano sotto le sembianze del dio Osiride. La luce, abbacinante all’esterno, ora diviene intima, raccolta. Siamo in una chiesa di tremila anni fa. Tutt’attorno sono scolpite le gesta del faraone, gli artisti egizi ci mostrano, con una chiara intonazione di parte, la battaglia di Qadesh: Ramses in trono, Ramses che colpisce, Ramses in posa plastica che tira con l’arco a bordo del suo splendido carro da battaglia.
Nel secondo atrio le pareti presentano ancora parte dei colori originari, anche se la decorazione non raggiunge i livelli artistici della prima stanza. Ma qui gli occhi sono attratti dalle statue di culto, il sancta sanctorum, in cui siedono Ra-Harakhte, Ptah, Amon-Ra e Ramses stesso, deificato. Qui, come accennato, due volte all'anno, il 21 febbraio e il 22 ottobre, i raggi del sole illuminano soltanto il volto del faraone; durante tutto l’anno quando il sole entra nel tempio, oltre a Ramses, illumina le statue di Ra e Ammone. Solo Ptah rimane in ombra, ma il dio delle tenebre non sa che farsene della luce del sole.
Poche centinaia di metri ed ecco un nuovo, straordinario, capolavoro scavato nella roccia: il tempio di Hathor e Nefertari. Se raffrontato con quello di Ramses, è certo meno imponente; giunti ai suoi piedi ci si trova comunque a naso all’insù ad osservare le sei statue, di 10 metri d’altezza, che ne compongono la facciata: quattro raffigurano Ramses e due, di uguale altezza, Nefertari.
Dall’ingresso si accede a una sala a tre navate, suddivisa da sei grandi pilastri che riproducono la testa della dea Hathor. I pilastri e le pareti sono ricoperte da eccezionali bassorilievi policromi a carattere religioso: Ramses e Nefertari sono più volte ritratti nell'atto di compiere offerte nei confronti di numerose divinità. Horos, Seth, Anukis, Maat, Iside ci riportano in una dimensione religiosa incredibilmente complessa, in cui la dimensione della morte e dell’aldilà è qualcosa di palpabile, tangibile, estremamente vicino all'uomo e alla sua vita.
Abu Simbel e la sua straordinaria carica religiosa e umana affondano le loro origini in un mondo cronologicamente lontanissimo. Il suo splendore ha superato millenni per regalarci, ancora oggi, emozioni che non hanno pari. Eppure anche questo capolavoro, che pare sfidare le leggi del tempo e della natura, ha vissuto periodi decisamente difficili. Pochi anni dopo la sua costruzione fu danneggiato da un terremoto, e l’enorme statua del sovrano brutalmente deturpata ne è la più drammatica testimonianza. Più tardi l’intera area fu abbandonata al deserto e la sabbia, inesorabile, lo seppellì quasi per intero.
Nei primi anni dell’Ottocento, lo studioso svizzero Burckhardt vide così spuntare tra la sabbia solo le enormi teste dei colossi della facciata. Ma in quel periodo l’egittologia era una specie di mania collettiva e una tale scoperta non poteva non suscitare l’interesse di personaggi del calibro dell’italiano Belzoni che, primo uomo dopo millenni, riuscì a entrare nel santuario.
In pieno Novecento un nuovo pericolo: è il 1960 e il presidente egiziano Nasser dà il via alla costruzione della grande diga di Assuan, che prevede la creazione di un enorme bacino artificiale. Un grande progetto per l’Egitto, ma un’indicibile minaccia per questi capolavori che rischiano di essere letteralmente sommersi. Fortunatamente interviene l'Unesco: in cinque anni di lavoro i templi di Abu Simbel vennero numerati, catalogati, smontati pezzo per pezzo, quindi ricostruiti su un terrapieno più elevato, mantenendo persino l'originario orientamento rispetto agli astri, che permette al sole di illuminare il volto del suo figlio prediletto.
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