Libia: il deserto del Fezzan
Un viaggio avventura nel Sahara libico, estrema frontiera delle terre conosciute, è una ricerca vitale della poetica dei luoghi dove perdersi per ritrovare il senso della meraviglia. Gli erg di Ubari, Uan Kaza e Murzuk, i rilievi dell’Acacus e del Messak sono gli scenari di una spedizione nel Fezzan alla scoperta dei “deserti”, oceani di sabbia e roccia senza limiti visibili, come sospesi in un tempo indefinito.
Testo e foto di Angelo Fanzini
L’erg di Ubari, a nord della valle dell’Ajal, cela al suo interno il tesoro di laghi idilliaci, circondati da vegetazione e palmeti. Sono Umm-el-Ma (la madre delle acque), dalla caratteristica forma a imbuto, e Mandara, uno specchio d’acqua quasi interamente coperto dal sale, antica fonte di ricchezza degli abitanti locali, i Dauada, popolazione che per secoli visse in questo ambiente nutrendosi di datteri e di piccole larve che si riproducevano sulla superficie delle acque del lago di Gabr’aun. Qui accanto alle rovine del villaggio abbandonato è situato il lago più grande, incorniciato da una grande duna.
A sud ovest si staglia il massiccio del Tadrart Acacus, il parco nazionale dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E’ questo uno dei tassili che dal massiccio algerino dell’Hoggar digradano verso est perdendosi nelle sabbie dell’Edeyen di Murzuq: spazi della lontananza e della solitudine, luoghi della ricerca e dell’abbandono, avamposti di vita e di meditazione. Formazioni rocciose, archi pietrificati, scuri monoliti erosi dal tempo emergono dalla sabbia come isole di pietra, creando paesaggi surreali dai fantastici contrasti cromatici.
Un’antichissima civiltà si è espressa nell’Acacus tramandando fino ai giorni nostri uno dei più grandi santuari dell’arte pittorica preistorica. Sulle pareti levigate di canyon scavati da antichi fiumi gli uomini del neolitico hanno narrato con ricchezza di dettagli la loro storia quotidiana e mitologica, attraverso raffinati e complessi graffiti.
Le dune di Uan Kaza e il Messak Settafet Lo spettacolare erg di Uan Kaza è la barriera naturale che si incunea tra l'Acacus e il Messak Settafet. È un museo a cielo aperto dedicato alla potenza della natura: splendide combinazioni di dune di sabbia modellate dal vento assumono forme grafiche complesse e armoniose, a mezzaluna, a spada, a catene di gobbe, a cupola o a piramidi protese verso il cielo. Gli ammassi di dune, sospinti ogni giorno dal vento, si muovono lentamente e in modo apparentemente precario, ma hanno una lunga storia millenaria.
Superati i corridoi di dune si attraversa la vasta piana del reg Taita e il passo di Abahoa per entrare nell’arido e pietroso Messak Settafet, l’”altopiano nero” dove l’assenza diventa realtà. In un paesaggio lunare e astratto si raggiungono i siti di incisioni dell’uadi Mathendush e In Galghien, che racchiudono i principali capolavori dell’arte rupestre dell’epoca dei cacciatori. In lontananza si profilano le immense dune dell’erg di Murzuq, impenetrabili e misteriose come l’oscurità della sera che raggiunge il campo della spedizione. Dal bivacco attorno al fuoco le guide tuareg intonano un’antica nenia - Ténéré - quasi a voler addolcire il soffio del vento. Tuareg, signori del deserto, capaci di ritrovare passaggi nascosti alla vista e piste dimenticate, si lasciano guidare dalla nostalgia verso racconti di donne amate e di uomini ombra che popolano i loro sonni. Uomini blu, romantici e spirituali, nei loro visi dipinti i segni del loro mondo, nei loro occhi la libertà di sognare.
Il deserto del Fezzan, testimone di questo incontro, si racconta attraverso immagini che sfumano negli incerti confini tra coscienza e memoria, uno spazio dell’altrove che amplifica il tracciato delle sensazioni, come se un nascosto meccanismo liberasse energie inascoltate. L’anima del viaggiatore, prima in punta di piedi, poi con maggiore sicurezza prende coscienza di sé. Non c’è un riparo al quale ancorarsi, affiorano lentamente, insieme allo stupore, le fatiche e il carico dei percorsi che ci hanno segnato.
Qui, ai margini del mondo, si svela il senso di quel coraggio della semplicità che ci concede di celebrare le emozioni più intime e disarmanti, così vicine al silenzio, così lontane dalla superficie. E’ il bisogno di non svendere l’esperienza, l’urgenza di proteggerne il valore per lasciarla accadere, semplicemente accadere, come la vita. E mentre il cielo si chiude nei colori del tramonto, le luci del Sahara, distanti da ogni perché, disegnano la sottile linea di un nuovo sentiero sulla mappa preziosa degli zingari felici.
Tadrart Acacus
Posto all'estremità sud occidentale del Sahara libico, il Tadrart Acacus è un altopiano di circa 900 m d’altezza, con cime che superano i 1300 m che si estende in direzione nord sud per circa 150 km di lunghezza e 30 km di larghezza. Ad est è contornato dagli erg sabbiosi di Uan Kaza e Murzuk mentre a ovest confina con il Tassili algerino.
Una lunga storia geologica, le trasformazioni millenarie del clima e l’azione erosiva del vento hanno fortemente tormentato la morfologia del territorio, costituito da massicci di arenaria, intersecati da fiumi fossili risalenti alla preistoria che hanno scavato profondi canyon e scolpito le rocce in forme caratteristiche, a volte molto spettacolari. Ne è un esempio il cosiddetto “Arco di Trionfo” che si erge per oltre 50 metri nella zona di Fozzigiaren.
Questo ambiente naturale, in epoche remote, era in grado di ospitare popolazioni e animali. Il Sahara, infatti, e tutta l'Africa del nord, erano un'immensa savana percorsa da fiumi impetuosi e popolata da una ricca fauna selvaggia. Le tracce di questa presenza sono visibilmente giunte ai nostri giorni in forma di graffiti e immagini pittoriche di grande pregio, preservati nei millenni grazie al clima secco e asciutto, nonostante l’esposizione all’erosione della sabbia e del vento. Gli studiosi dell'arte rupestre sahariana hanno evidenziato cinque periodi storici differenti dell'evoluzione artistica: la Grande fauna selvaggia, le Teste rotonde, Pastorale, la Fase del cavallo e la Fase del cammello.
L’Uadi Teshuinat, il ramo fluviale principale dell'Acacus, è l’area dove si riscontra la maggior concentrazione di siti rupestri. Questo uadi, si sviluppa per circa 60 chilometri nella parte centrale del massiccio. Il suo stretto canyon via via si allarga lasciando il posto a un’ampia vallata delimitata da vertiginose falesie verticali. Un luogo di spettacolare bellezza quale l’uadi Teshuinat, dal cui letto sabbioso appaiono scorci panoramici sempre diversi, non poteva non alimentare la fantasia dei padroni del deserto, i tuareg.
Al centro del Teshuinat emergono, completamente isolati, due enormi roccioni dai fianchi ripidissimi, uno dei quali è detto “dei mille cammelli”. Si narra, infatti, che un giorno, all’epoca in cui il letto dell’uadi offriva pascolo per le mandrie, un tuareg si vantò che avrebbe potuto arrampicarsi sino alla vetta della roccia più elevata e inaccessibile. I tuareg lo misero alla prova promettendogli, come premio per questa impresa, mille cammelli. Il temerario accettò la sfida e, indenne, arrivò in cima. Purtroppo per lui non seppe più scendere dalla vetta conquistata e vi morì di fame e di sete, contemplando dall’alto la sua enorme e vana ricchezza.
Alla base delle pareti di roccia dell’uadi numerosi ricoveri naturali hanno offerto riparo agli uomini primitivi che, in molti casi, li hanno decorati con stupendi affreschi, studiati da appassionati ricercatori di tutto il mondo. I più interessanti dipinti si trovano nei siti di Uan Amil, Tin Tarharit e In Farden. Uan Amil è probabilmente il sito più interessante dell’intero uadi. Il ciclo di affreschi, databile in epoca pastorale antica, è di assoluta bellezza e affascina attraverso scene tratte dalla vita quotidiana, di battaglia e di caccia.
La Preparazione dell’acconciatura e la Scena della vestizione trasportano immediatamente in una quotidianità lontana migliaia di anni e raccontano le fasi preparatorie per la realizzazione della cosiddetta “chioma a cimiero”, pettinatura in auge anche nell’antica Roma. Un altro episodio di estremo interesse è la cosiddetta Coercizione in cui una figura femminile è trascinata all’interno di un recinto circolare da un personaggio (probabilmente un’altra donna), aiutato da una terza figura maschile che sospinge la donna riluttante.
Di chiaro significato epico è invece la Scena della Battaglia, in cui si fronteggiano due schiere di guerrieri. A sinistra, venti uomini si caratterizzano per acconciature con un ciuffo giallo, lo schieramento avversario è invece composto da guerrieri che presentano l’acconciatura con il ciuffo rosso. Sulla destra spiccano due figure regali dai tratti raffinati, che si scambiano dei doni tra i quali, decisamente riconoscibile, un boomerang. Probabilmente l’intera scena è il primo esempio nella storia dell’umanità di descrizione di un fatto realmente accaduto: la contesa di pascolo e lo scontro tra le etnie dei ciuffi gialli e dei ciuffi rossi, terminata con un’alleanza suggellata dallo scambio di doni tra i capi e un matrimonio di stato.
Alla base di un’imponente parete di roccia, la grotta di Tin Tarharit si apre al cospetto di un’alta duna che, riportando la mente al più tipico paesaggio sahariano, contrasta vivamente con le scene rappresentate dall’abile mano degli antichi cacciatori africani. Alla destra della vistosa spaccatura che caratterizza questo riparo, si incontra una vivace Caccia al muflone, seguita da due Figure femminili. Sulla parte destra si sviluppa il cosiddetto Galoppo volante, una scena composta da due carri equestri di colore rosso intenso. Il medesimo riparo ospita anche una splendida giraffa gialla punteggiata in ocra, alcuni capridi e un grande bovino che allatta un vitello.
Messak Settafet
Il Messak Settafet, "il massiccio nero", è un ambiente naturale molto diverso dall'Acacus: si tratta di un vasto altopiano, intagliato da spaccature rocciose, ricoperto da detriti di arenaria lucidati dalla sabbia e anneriti dal caldo rovente del Sahara. Un territorio desolato, praticamente senza vegetazione, tranne che negli uadi. Eppure, in una vicina epoca geologica, quest’area che si perde verso sud, nella piana che annuncia le dune dell'Erg di Murzuq, era una foresta rigogliosa, contornata da praterie, solcata dalle acque di un grande fiume, l’attuale uadi Bergiug.
Come, ancora oggi, avviene centinaia di chilometri più a sud, foresta e savana riecheggiavano dei richiami della fauna selvaggia, ricchezza per gli uomini preistorici, che ne traevano fonte di nutrimento e di ispirazione artistica. L’arenaria ha offerto a queste popolazioni un vasto territorio di caccia e la prima tela su cui raccontare il proprio mondo che, intatto, è giunto sino a noi, all’epoca della computer grafica.
Nel 1850 l’esploratore James Richardson, il naturalista Adolf Overweg e l’archeologo Heinrich Barth furono i primi europei ad ammirare i graffiti del Messak; incisioni, come annotò Barth, che “portano il segno di una mano forte e rilassata, ben esercitata in questo tipo di lavoro”. Da allora l’arte rupestre del Fezzan ha attratto molti studiosi: Leo Frobenius, Paolo Graziosi, Fabrizio Mori, tutti affascinati dalla vita che traspare da questa foresta perduta. Due i più rappresentativi siti d’arte presenti nel Messak Settafet: Mathendush e In Galghien.
Punto di riferimento dell’arte rupestre sahariana, il sito dell’uadi Mathendush si trova alle pendici sud orientali dell’altopiano del Messak. I cinquanta metri della falesia dello uadi costituiscono lo scenario di questo spettacolare museo a cielo aperto, che ci immerge nell’epoca dei cacciatori messakiani.
Al centro del sito si manifesta l’universo reale e mitologico di queste popolazioni primitive, e prende vita attraverso tratti profondamente incisi che delineano le immagini staccandosi dalla parete accuratamente lisciata. Questa sorta di santuario è dominato da due animali immaginari, che si fronteggiano, eretti sugli arti posteriori. La postura aggressiva delle zampe anteriori contrasta con l’atteggiamento generale delle due figure dalle movenze feline, che lievitano verso l’alto in una sorta di danza rituale. Tra i due Gatti Mammoni (Meercatze), come li battezzò Frobenius, spiccano le incisioni di quattro piccoli struzzi.
Sotto le due bizzarre figure si dispiegano opere di indubbio interesse artistico. Una giraffa, l’animale di gran lunga più rappresentato, con zampe poderose e collo forte. A destra la fronteggiano due cerchi: quello inferiore, coevo all’immagine, è formato da due cerchi concentrici raccordati da nove linee, una delle quali prosegue verso il basso fino a congiungersi a una forma irregolare.
Basandosi sulle tecniche di caccia ancora utilizzate dalle popolazioni Dinka e Nuer del Sudan meridionale, i ricercatori hanno ipotizzato che queste forme geometriche, presenti anche in altri graffiti, rappresentino delle trappole finalizzate ad imprigionare gli arti dell’animale. Questo, trattenuto da una pesante pietra diveniva così più facilmente attaccabile dagli uomini con lance e pugnali. Probabilmente questa rappresentazione aveva la funzione di pannello didattico, per istruire i giovani e iniziarli alle tecniche venatorie.
Verso l’estremità sinistra del Mathendush un possente coccodrillo preda un erbivoro, mentre, più a sinistra, si staglia un grande rettile, probabilmente un varano d’acqua, animale che, autentico fossile vivente, sopravvive ancora nel massiccio dell’Ennedi. Nei circa 1000 metri del Mathendush, l’arenaria racconta, attraverso centinaia di immagini, la primordiale storia di cacciatori, in un ambiente difficile ma di straordinaria bellezza.
In Galghien “La pozza dei corvi”, secondo il suo significato in tamahaq, la lingua dei tuareg, si trova alle pendici sud orientali dell’altopiano. Però per tutti gli appassionati d’arte rupestre sahariana In Galghien è “il posto degli elefanti” a causa della grandiosità ed efficacia con cui sono riprodotte le scene di caccia al mastodontico pachiderma. Tecniche venatorie, ancora oggi utilizzate dai pigmei delle foreste centrafricane, si alternano a rappresentazioni di struzzi e di giraffe, oltre a un ippopotamo che, inevitabilmente, ci induce ad immaginare un ambiente naturale ricco di acqua e di vegetazione.
In questo sito sono facilmente distinguibili anche i caratteri alfabetici tifinhag, usati dai tuareg. Di epoca molto più recente, ma non sempre leggibili, si riferiscono a stadi antichi della lingua tamahaq. Nella maggior parte dei casi si tratta di frasi estremamente semplici, che si trovano in corrispondenza dei punti di sosta delle carovane. La presenza dei tifinhag segnala, quindi, l’esistenza di falde acquifere.
Foto Gallery
A sud ovest si staglia il massiccio del Tadrart Acacus, il parco nazionale dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E’ questo uno dei tassili che dal massiccio algerino dell’Hoggar digradano verso est perdendosi nelle sabbie dell’Edeyen di Murzuq: spazi della lontananza e della solitudine, luoghi della ricerca e dell’abbandono, avamposti di vita e di meditazione. Formazioni rocciose, archi pietrificati, scuri monoliti erosi dal tempo emergono dalla sabbia come isole di pietra, creando paesaggi surreali dai fantastici contrasti cromatici.
Un’antichissima civiltà si è espressa nell’Acacus tramandando fino ai giorni nostri uno dei più grandi santuari dell’arte pittorica preistorica. Sulle pareti levigate di canyon scavati da antichi fiumi gli uomini del neolitico hanno narrato con ricchezza di dettagli la loro storia quotidiana e mitologica, attraverso raffinati e complessi graffiti.
Le dune di Uan Kaza e il Messak Settafet Lo spettacolare erg di Uan Kaza è la barriera naturale che si incunea tra l'Acacus e il Messak Settafet. È un museo a cielo aperto dedicato alla potenza della natura: splendide combinazioni di dune di sabbia modellate dal vento assumono forme grafiche complesse e armoniose, a mezzaluna, a spada, a catene di gobbe, a cupola o a piramidi protese verso il cielo. Gli ammassi di dune, sospinti ogni giorno dal vento, si muovono lentamente e in modo apparentemente precario, ma hanno una lunga storia millenaria.
Superati i corridoi di dune si attraversa la vasta piana del reg Taita e il passo di Abahoa per entrare nell’arido e pietroso Messak Settafet, l’”altopiano nero” dove l’assenza diventa realtà. In un paesaggio lunare e astratto si raggiungono i siti di incisioni dell’uadi Mathendush e In Galghien, che racchiudono i principali capolavori dell’arte rupestre dell’epoca dei cacciatori. In lontananza si profilano le immense dune dell’erg di Murzuq, impenetrabili e misteriose come l’oscurità della sera che raggiunge il campo della spedizione. Dal bivacco attorno al fuoco le guide tuareg intonano un’antica nenia - Ténéré - quasi a voler addolcire il soffio del vento. Tuareg, signori del deserto, capaci di ritrovare passaggi nascosti alla vista e piste dimenticate, si lasciano guidare dalla nostalgia verso racconti di donne amate e di uomini ombra che popolano i loro sonni. Uomini blu, romantici e spirituali, nei loro visi dipinti i segni del loro mondo, nei loro occhi la libertà di sognare.
Il deserto del Fezzan, testimone di questo incontro, si racconta attraverso immagini che sfumano negli incerti confini tra coscienza e memoria, uno spazio dell’altrove che amplifica il tracciato delle sensazioni, come se un nascosto meccanismo liberasse energie inascoltate. L’anima del viaggiatore, prima in punta di piedi, poi con maggiore sicurezza prende coscienza di sé. Non c’è un riparo al quale ancorarsi, affiorano lentamente, insieme allo stupore, le fatiche e il carico dei percorsi che ci hanno segnato.
Qui, ai margini del mondo, si svela il senso di quel coraggio della semplicità che ci concede di celebrare le emozioni più intime e disarmanti, così vicine al silenzio, così lontane dalla superficie. E’ il bisogno di non svendere l’esperienza, l’urgenza di proteggerne il valore per lasciarla accadere, semplicemente accadere, come la vita. E mentre il cielo si chiude nei colori del tramonto, le luci del Sahara, distanti da ogni perché, disegnano la sottile linea di un nuovo sentiero sulla mappa preziosa degli zingari felici.
Tadrart Acacus
Posto all'estremità sud occidentale del Sahara libico, il Tadrart Acacus è un altopiano di circa 900 m d’altezza, con cime che superano i 1300 m che si estende in direzione nord sud per circa 150 km di lunghezza e 30 km di larghezza. Ad est è contornato dagli erg sabbiosi di Uan Kaza e Murzuk mentre a ovest confina con il Tassili algerino.
Una lunga storia geologica, le trasformazioni millenarie del clima e l’azione erosiva del vento hanno fortemente tormentato la morfologia del territorio, costituito da massicci di arenaria, intersecati da fiumi fossili risalenti alla preistoria che hanno scavato profondi canyon e scolpito le rocce in forme caratteristiche, a volte molto spettacolari. Ne è un esempio il cosiddetto “Arco di Trionfo” che si erge per oltre 50 metri nella zona di Fozzigiaren.
Questo ambiente naturale, in epoche remote, era in grado di ospitare popolazioni e animali. Il Sahara, infatti, e tutta l'Africa del nord, erano un'immensa savana percorsa da fiumi impetuosi e popolata da una ricca fauna selvaggia. Le tracce di questa presenza sono visibilmente giunte ai nostri giorni in forma di graffiti e immagini pittoriche di grande pregio, preservati nei millenni grazie al clima secco e asciutto, nonostante l’esposizione all’erosione della sabbia e del vento. Gli studiosi dell'arte rupestre sahariana hanno evidenziato cinque periodi storici differenti dell'evoluzione artistica: la Grande fauna selvaggia, le Teste rotonde, Pastorale, la Fase del cavallo e la Fase del cammello.
L’Uadi Teshuinat, il ramo fluviale principale dell'Acacus, è l’area dove si riscontra la maggior concentrazione di siti rupestri. Questo uadi, si sviluppa per circa 60 chilometri nella parte centrale del massiccio. Il suo stretto canyon via via si allarga lasciando il posto a un’ampia vallata delimitata da vertiginose falesie verticali. Un luogo di spettacolare bellezza quale l’uadi Teshuinat, dal cui letto sabbioso appaiono scorci panoramici sempre diversi, non poteva non alimentare la fantasia dei padroni del deserto, i tuareg.
Al centro del Teshuinat emergono, completamente isolati, due enormi roccioni dai fianchi ripidissimi, uno dei quali è detto “dei mille cammelli”. Si narra, infatti, che un giorno, all’epoca in cui il letto dell’uadi offriva pascolo per le mandrie, un tuareg si vantò che avrebbe potuto arrampicarsi sino alla vetta della roccia più elevata e inaccessibile. I tuareg lo misero alla prova promettendogli, come premio per questa impresa, mille cammelli. Il temerario accettò la sfida e, indenne, arrivò in cima. Purtroppo per lui non seppe più scendere dalla vetta conquistata e vi morì di fame e di sete, contemplando dall’alto la sua enorme e vana ricchezza.
Alla base delle pareti di roccia dell’uadi numerosi ricoveri naturali hanno offerto riparo agli uomini primitivi che, in molti casi, li hanno decorati con stupendi affreschi, studiati da appassionati ricercatori di tutto il mondo. I più interessanti dipinti si trovano nei siti di Uan Amil, Tin Tarharit e In Farden. Uan Amil è probabilmente il sito più interessante dell’intero uadi. Il ciclo di affreschi, databile in epoca pastorale antica, è di assoluta bellezza e affascina attraverso scene tratte dalla vita quotidiana, di battaglia e di caccia.
La Preparazione dell’acconciatura e la Scena della vestizione trasportano immediatamente in una quotidianità lontana migliaia di anni e raccontano le fasi preparatorie per la realizzazione della cosiddetta “chioma a cimiero”, pettinatura in auge anche nell’antica Roma. Un altro episodio di estremo interesse è la cosiddetta Coercizione in cui una figura femminile è trascinata all’interno di un recinto circolare da un personaggio (probabilmente un’altra donna), aiutato da una terza figura maschile che sospinge la donna riluttante.
Di chiaro significato epico è invece la Scena della Battaglia, in cui si fronteggiano due schiere di guerrieri. A sinistra, venti uomini si caratterizzano per acconciature con un ciuffo giallo, lo schieramento avversario è invece composto da guerrieri che presentano l’acconciatura con il ciuffo rosso. Sulla destra spiccano due figure regali dai tratti raffinati, che si scambiano dei doni tra i quali, decisamente riconoscibile, un boomerang. Probabilmente l’intera scena è il primo esempio nella storia dell’umanità di descrizione di un fatto realmente accaduto: la contesa di pascolo e lo scontro tra le etnie dei ciuffi gialli e dei ciuffi rossi, terminata con un’alleanza suggellata dallo scambio di doni tra i capi e un matrimonio di stato.
Alla base di un’imponente parete di roccia, la grotta di Tin Tarharit si apre al cospetto di un’alta duna che, riportando la mente al più tipico paesaggio sahariano, contrasta vivamente con le scene rappresentate dall’abile mano degli antichi cacciatori africani. Alla destra della vistosa spaccatura che caratterizza questo riparo, si incontra una vivace Caccia al muflone, seguita da due Figure femminili. Sulla parte destra si sviluppa il cosiddetto Galoppo volante, una scena composta da due carri equestri di colore rosso intenso. Il medesimo riparo ospita anche una splendida giraffa gialla punteggiata in ocra, alcuni capridi e un grande bovino che allatta un vitello.
Messak Settafet
Il Messak Settafet, "il massiccio nero", è un ambiente naturale molto diverso dall'Acacus: si tratta di un vasto altopiano, intagliato da spaccature rocciose, ricoperto da detriti di arenaria lucidati dalla sabbia e anneriti dal caldo rovente del Sahara. Un territorio desolato, praticamente senza vegetazione, tranne che negli uadi. Eppure, in una vicina epoca geologica, quest’area che si perde verso sud, nella piana che annuncia le dune dell'Erg di Murzuq, era una foresta rigogliosa, contornata da praterie, solcata dalle acque di un grande fiume, l’attuale uadi Bergiug.
Come, ancora oggi, avviene centinaia di chilometri più a sud, foresta e savana riecheggiavano dei richiami della fauna selvaggia, ricchezza per gli uomini preistorici, che ne traevano fonte di nutrimento e di ispirazione artistica. L’arenaria ha offerto a queste popolazioni un vasto territorio di caccia e la prima tela su cui raccontare il proprio mondo che, intatto, è giunto sino a noi, all’epoca della computer grafica.
Nel 1850 l’esploratore James Richardson, il naturalista Adolf Overweg e l’archeologo Heinrich Barth furono i primi europei ad ammirare i graffiti del Messak; incisioni, come annotò Barth, che “portano il segno di una mano forte e rilassata, ben esercitata in questo tipo di lavoro”. Da allora l’arte rupestre del Fezzan ha attratto molti studiosi: Leo Frobenius, Paolo Graziosi, Fabrizio Mori, tutti affascinati dalla vita che traspare da questa foresta perduta. Due i più rappresentativi siti d’arte presenti nel Messak Settafet: Mathendush e In Galghien.
Punto di riferimento dell’arte rupestre sahariana, il sito dell’uadi Mathendush si trova alle pendici sud orientali dell’altopiano del Messak. I cinquanta metri della falesia dello uadi costituiscono lo scenario di questo spettacolare museo a cielo aperto, che ci immerge nell’epoca dei cacciatori messakiani.
Al centro del sito si manifesta l’universo reale e mitologico di queste popolazioni primitive, e prende vita attraverso tratti profondamente incisi che delineano le immagini staccandosi dalla parete accuratamente lisciata. Questa sorta di santuario è dominato da due animali immaginari, che si fronteggiano, eretti sugli arti posteriori. La postura aggressiva delle zampe anteriori contrasta con l’atteggiamento generale delle due figure dalle movenze feline, che lievitano verso l’alto in una sorta di danza rituale. Tra i due Gatti Mammoni (Meercatze), come li battezzò Frobenius, spiccano le incisioni di quattro piccoli struzzi.
Sotto le due bizzarre figure si dispiegano opere di indubbio interesse artistico. Una giraffa, l’animale di gran lunga più rappresentato, con zampe poderose e collo forte. A destra la fronteggiano due cerchi: quello inferiore, coevo all’immagine, è formato da due cerchi concentrici raccordati da nove linee, una delle quali prosegue verso il basso fino a congiungersi a una forma irregolare.
Basandosi sulle tecniche di caccia ancora utilizzate dalle popolazioni Dinka e Nuer del Sudan meridionale, i ricercatori hanno ipotizzato che queste forme geometriche, presenti anche in altri graffiti, rappresentino delle trappole finalizzate ad imprigionare gli arti dell’animale. Questo, trattenuto da una pesante pietra diveniva così più facilmente attaccabile dagli uomini con lance e pugnali. Probabilmente questa rappresentazione aveva la funzione di pannello didattico, per istruire i giovani e iniziarli alle tecniche venatorie.
Verso l’estremità sinistra del Mathendush un possente coccodrillo preda un erbivoro, mentre, più a sinistra, si staglia un grande rettile, probabilmente un varano d’acqua, animale che, autentico fossile vivente, sopravvive ancora nel massiccio dell’Ennedi. Nei circa 1000 metri del Mathendush, l’arenaria racconta, attraverso centinaia di immagini, la primordiale storia di cacciatori, in un ambiente difficile ma di straordinaria bellezza.
In Galghien “La pozza dei corvi”, secondo il suo significato in tamahaq, la lingua dei tuareg, si trova alle pendici sud orientali dell’altopiano. Però per tutti gli appassionati d’arte rupestre sahariana In Galghien è “il posto degli elefanti” a causa della grandiosità ed efficacia con cui sono riprodotte le scene di caccia al mastodontico pachiderma. Tecniche venatorie, ancora oggi utilizzate dai pigmei delle foreste centrafricane, si alternano a rappresentazioni di struzzi e di giraffe, oltre a un ippopotamo che, inevitabilmente, ci induce ad immaginare un ambiente naturale ricco di acqua e di vegetazione.
In questo sito sono facilmente distinguibili anche i caratteri alfabetici tifinhag, usati dai tuareg. Di epoca molto più recente, ma non sempre leggibili, si riferiscono a stadi antichi della lingua tamahaq. Nella maggior parte dei casi si tratta di frasi estremamente semplici, che si trovano in corrispondenza dei punti di sosta delle carovane. La presenza dei tifinhag segnala, quindi, l’esistenza di falde acquifere.
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Approfondimento: I Garamanti
A cura di Anna Maria Arnesano e Giulio Badini
Attorno alla metà del V° secolo a.C. il geografo greco Erodoto, parlando delle popolazioni del nord Africa, accenna per primo all'esistenza dei Garamanti. In poche righe informa che coltivavano con l'aratro dopo aver cosparso di terra fertile il sottostante terreno salato, che i loro buoi pascolavano a ritroso per non conficcare nel suolo le lunghe corna e che a bordo di carri trainati da quattro cavalli cacciavano gli Etiopi trogloditi, gli uomini più veloci nella corsa. Successivamente altri storici latini si occuperanno a più riprese dei Garamanti, per l'importante ruolo politico, militare ed economico svolto da questo popolo nel centro del nord Africa per oltre un millennio a cavallo dell'era cristiana.
In estrema sintesi essi diedero vita al primo stato unitario sahariano, o quanto meno ad una potenza regionale, con cui dovettero confrontarsi anche i Romani, e furono gli inventori e i grandi propulsori dell'antico commercio transahariano tra l'Africa nera e il Mediterraneo, aprendo le prime vie carovaniere ancora nella protostoria, oltre ad essere i predecessori degli attuali Tuareg, i mitici uomini blu del deserto. Inoltre la loro capitale, Garama, primo segno di civiltà urbana nel deserto, costituì il punto più meridionale di presenza stabile dei Romani in Africa, ben oltre il vallo del "limes" e la famosa scritta "hic sunt leones" che compariva sulle carte dell'epoca, nonché punto di partenza per l'esplorazione di regioni poste ancora più a sud.
I Garamanti occupavano il Fezzan, la "Phazania romana", l'estrema regione della Libia di sud-ovest al confine con Algeria, Niger e Ciad, erano una popolazione berbera di pelle chiara di provenienza mediorientale (forse palestinese) mischiatasi già in epoca preistorica con elementi neri e meticci locali, ed erano con molta probabilità i discendenti diretti di quei pastori e allevatori neolitici che popolarono il Sahara centrale sei mila anni fa, quando il deserto era ancora verde e ricco di vita, come ci attestano centinaia di migliaia di pitture e di incisioni rupestri sparse ovunque.
Di fronte all'irreversibile mutamento delle condizioni climatiche e all'avanzare dell'aridità, essi si trasferirono, o comunque gravitarono, in una delle pochissime aree rimaste fertili fino ad oggi, la valle dell'uadi el Ajal (oggi chiamata anche al Hayat), una stretta lingua di terra che si inoltra per 200 chilometri verso ovest da Sebha, attuale capoluogo del Fezzan, compressa a nord delle dune del grande erg di Ubari e a sud dalle falesie dell'altipiano roccioso del Messak. Nella preistoria in questa valle scorreva un fiume, ma già 3-4 mila anni fa il corso era sparito, lasciando però una falda freatica a pochi metri dalla superficie, tale da poter consentire la presenza di un'intensa vegetazione.
A circa 150 chilometri da Sebha, nella prima metà del primo millennio a.C. i Garamanti edificarono la loro città più antica (e forse la più vecchia del Sahara), Zinchecra, su uno sperone di roccia del Messak, protetto naturalmente e da ingenti mura ciclopiche. Le minuscole abitazioni erano costruite con mattoni di fango su blocchi di roccia. La scelta di un sito così scomodo e ristretto, ma facilmente difendibile, fa pensare ad una motivata insicurezza, probabilmente a conflitti e razzie. Nel V° sec. a.C. l'accresciuta sicurezza o l'aumento della popolazione portò al progressivo abbandono della rocca e al suo trasferimento nella piana sottostante, creando presso una sorgente la città di Garama, la nuova capitale presso l'odierna Germa, anche se il suo apogeo si avrà soltanto a partire dal I° sec. d.C.
I Garamanti, forse perché spinti dalla necessità, si rivelarono intelligenti e intraprendenti, una delle popolazioni più avanzate dell'epoca. Erano allevatori nomadi di ingenti mandrie di bovini e di cavalli, ottimi agricoltori in grado di coltivare frumento, orzo, datteri, frutta, cotone e ortaggi, discreti artigiani nonostante una tecnologia e attrezzi – almeno inizialmente – preistorici e litici (nel Sahara dopo il neolitico è mancata, come altrove, l'era dei metalli, che furono importati dall'esterno), riuscendo comunque a produrre pregiati gioielli d'oro, di avorio e di pietre dure (tra cui l'amazzonite, un granato chiamato lo smeraldo garamantico, estratta sui monti del Tibesti), e idraulici eccelsi, in grado di creare una fitta rete di canali sotterranei per attingere e convogliare l'acqua, diffusa e ancora oggi utilizzata in tutto il deserto con il nome arabo di foggara, vero capolavoro di ingegneria applicata.
Ma soprattutto seppero volgere in positivo quello che poteva apparire a prima vista un handicap, cioè la loro ubicazione geografica nel cuore del Sahara. Questa posizione mediana, a metà strada tra il Sahel e il Mediterraneo, in una valle che costituiva un punto obbligato di transito verso i quattro punti cardinali, li portò per primi a concepire e ad organizzare – ricavandone notevoli benefici - il commercio transahariano, favoriti anche dal fatto di essere stati i primi ad intuire il potenziale al riguardo di alcune nuove e rivoluzionarie acquisizioni, come l'introduzione del cavallo e del carro prima, e della palma da dattero e del dromedario poi.
Occorreva essere lungimiranti per capire in anticipo quanto potesse essere redditizio far trovare ai commercianti della costa, Fenici prima, Punici, Greci e Romani poi, schiavi neri, oro, pietre preziose, spezie, incenso, ebano, avorio, animali feroci, piume di struzzo, pelli e altro, fornendo in cambio alle popolazione nere sale, tessuti, prodotti e manufatti mediterranei. Non deve quindi meravigliare se arrivarono a gestire in regime di monopolio il commercio nordafricano, gestendo empori, organizzando e guidando carovane, forse anche predandole come avrebbero fatto poi i Tuareg, o imponendo dazi di transito e ad esercitare, mediante apposite fortezze nei punti strategici, un intenso controllo sul territorio.
Le fonti storiche sono abbastanza avare di informazioni, e tutte comunque piuttosto tarde, nei loro riguardi. Non sappiamo ad esempio nulla sulle relazioni politiche con gli empori fenici della costa e con la stessa Cartagine, forse grazie al fatto che a questi non interessava il controllo delle regioni interne. Discorso molto diverso invece con la comparsa dei Romani, con i quali si instaurerà un rapporto costante di amore-odio, di scontro e di collaborazione alterni, fondato comunque sul reciproco tornaconto.
Nonostante vari tentativi al riguardo, i Garamanti, per il loro carattere indomito, non furono mai sottomessi all'impero, al massimo furono partner, come ci testimonia Tacito. Evidentemente verso la fine del I° sec. a.C. cominciarono a minacciare il “limes tripolitanus”, un muro a secco e un fossato con avamposti di guardia lungo ben 500 chilometri che correva attraverso le montagne del Jebel Nafusa, se Plinio il Vecchio ci informa che nel 19 a.C. il proconsole Lucio Cornelio Balbo fu costretto ad organizzare una spedizione punitiva; partendo dalla costa con 20 mila uomini della III° legione Augusta raggiunse “Cydamus”, l'attuale Ghadames, poi “Rapsa”, forse l'attuale Ghat, dove installò la più meridionale delle guarnigioni imperiali a mille chilometri dal Mediterraneo, quindi conquistò Garama. Una notevole impresa di tre mila chilometri di marce forzate attraverso un deserto assolutamente inospitale, da meritargli uno sfarzoso trionfo a Roma.
La tregua fu evidentemente fragile, se dal 17 al 24, sotto Tiberio, fornirono truppe al re numida Tacfarinas che nell'odierna Algeria si era ribellato ai Romani; e alla sconfitta dovettero inviare ambasciatori a Roma per chiedere la pace. Che i Garamanti fossero una potenza regionale lo dimostra anche il fatto che nel 69 si allearono con “Oea”, l'attuale Tripoli, nella guerra contro “Leptis Magna”, alleata dei Romani, e mentre stavano per conquistarla furono debellati dalla legione Augusta del legato Valerio Flacco e inseguiti fino nel Fezzan. Da allora però i rapporti migliorarono e Garama ebbe una presenza costante romana, la più meridionale in Africa, più commerciale che militare.
Le fonti storiche tacciono per lungo tempo, perché al crollo dell'impero romano corrispose anche il declino del regno garamantico. Se ebbero pochi problemi con l'invasione dei Vandali, limitata alla costa, si opposero invece militarmente alla successiva invasione bizantina del 534, dovendo però alla fine accettare un trattato di pace e il cristianesimo nel 569. Ma con la scomparsa romana era cambiato, notevolmente in peggio, il quadro economico, e i Garamanti escono dalla scena della storia nel 655 con la conquista di Garama da parte degli Arabi e l'islamizzazione forzata del Fezzan. Spariti come tali ma non scomparsi del tutto, perché i loro discendenti sopravvissero fino ai giorni nostri nei Tuareg, il popolo dei grandi navigatori del Sahara.
Poco sappiamo sui costumi dei Garamanti, in quanto le ricerche archeologiche sono iniziate da meno di un secolo e anche perché risulta difficile cogliere le inevitabili mutazioni avvenute nel tempo per un popolo vissuto per quasi due millenni. Più che uno stato rigido fu una confederazione di tribù, sparse su un territorio enorme e imprecisato, che si riconosceva in un re e aveva la propria capitale a Garama, primo insediamento urbano sahariano, che non arrivò comunque mai a contare più di quattro mila abitanti.
I pastori nomadi e i commercianti spaziavano su ampi territori, vivendo i primi in capanne mobili trasferibili su carri trainati da buoi, mentre gli agricoltori coltivavano l'intera valle dell'Ajal e altre oasi. Vigeva la regola del deserto di offrire ospitalità a chiunque, per cui finirono per inglobare anche persone poco raccomandabili. Etnicamente erano berberi bianchi mediterranei, ma disponevano sicuramente anche di schiavi e di servi neri e meticci. L'attività carovaniera e commerciale, spaziante dal Mediterraneo al Sahel e dall'Atlantico all'Egitto, doveva garantire una vasta gamma di beni materiali, che affiancavano i poveri strumenti locali di discendenza neolitica come asce, raschiatoi, pestelli e macine in pietra.
Fu il primo popolo sahariano a possedere un alfabeto, il tifinagh libico-berbero di origine fenicio-punica ancora oggi usato dai Tuareg, e l'uso massiccio di cavallo, ruota e palma da dattero dovettero assicurargli grandi benefici economici. Gli uomini vestivano una tunica cortissima di lana o di pelle, svasata all'estremità, e si adornavano i capelli con piume di struzzo; le donne invece portavano una tunica di pelle rossa sfrangiata lunga fino ai piedi, con numerosi gioielli al collo, alle braccia e alle dita, oltre a piume di struzzo nei capelli.
Vigevano costumi alquanto liberi: le donne erano proprietà comune e il loro prestigio aumentava con il numero degli amanti; i bambini erano proprietà della madre fino alla pubertà, quando l'assemblea tribale riunita ne decretava la paternità in base alla somiglianza fisica. La donna godeva di elevato prestigio e vigeva il matriarcato, come presso i Tuareg attuali. Pare non permettessero ai vecchi di vivere oltre i 60 anni, età limite entro la quale dovevano strangolarsi con una corda di bue.
Grande l'attenzione per il culto dei morti: nella valle dell'Ajal gli archeologi sono arrivati a contare 60 mila tombe, la maggior necropoli del Sahara, non tutte ovviamente a loro attribuibili e dei tipi più svariati, mentre tutto il Sahara centrale pullula di tombe collettive garamantiche, fatte di grossi accumuli di sassi. I defunti venivano sepolti in posizione fetale e, nonostante sistematiche depredazioni, parecchie tombe hanno restituito resti di corredi funebri, per la gran parte di importazione anche da luoghi assai lontani, e lastre esterne di pietra con incavi per le offerte e i banchetti funebri.
I carri attribuiti da Erodono, e poi anche da Plutarco, ai Garamanti, formati da bighe leggere per uno-due uomini tirate da quattro cavalli lanciati al galoppo, lasciarono perplessi gli storici per oltre due millenni. Fino a quando, a partire dal 1930, la scoperta dell'arte sahariana non confermò la presenza di centinaia di pitture e di incisioni rupestri, le più antiche databili al 1.200 a.C. le più recenti al 100 d.C. quando compare il dromedario, che ritraevano appunto simili carri.
La loro diffusa presenza nei massicci dell'Acacus libico e del vicino Tassili algerino, cuore del regno garamantico, e la loro distribuzione lungo una linea che da nord-est a sud-ovest arriva fino all'ansa del Niger e alle rive del lago Ciad, ha fatto supporre l'esistenza di una vera e propria Via dei carri, tesi subito invalidata dalla loro presenza in tutto il Sahara centro occidentale. Altri studiosi hanno messo in evidenza come questi carri, tirati da cavalli non ferrati e con scarsa autonomia alimentare e idrica, fossero inadatti agli ampi tratti montuosi e rocciosi del deserto e non utili al trasporto di merci.
La soluzione risiede forse nel fatto che le merci venivano trasportate su carri pesanti trainati da buoi, mentre i carri al galoppo volante, trasportati nei tratti impervi sui carriaggi, potevano invece servire egregiamente nelle zone pianeggianti per le esplorazioni, i contatti tra le carovane, le incursioni predatorie, la guerra e la caccia, compresa anche quella ai veloci Etiopi per procurarsi schiavi. La fantasia degli artisti protostorici rimase ovviamente colpita prevalentemente da questi ultimi, lasciandone ampia testimonianza sulle pareti istoriate.
Oggi Garama si presenta ai turisti come una città fantasma di fango, assai intrigante e ricca di fascino per la sua spettralità, dove si mescolano oltre duemila anni di storia, in quanto fu abitata fino al 1930. Difficile leggere nel generale disfacimento e nelle continue sovrapposizioni i resti delle singole fasi, portati solo in parte in luce da scavi recenti. Della capitale garamantica, cinta da mura ovali con otto torri ed estesa per 50 ettari, rimangono nella piazza centrale le fondamenta dell'abitazione di un ricco mercante, quelle di un tempio dedicato al dio egizio Ammone, altre abitazioni minori e tracce di bagni romani.
Questi edifici denotano una relativa raffinatezza architettonica, con influenze greche e romane: le strutture, poggianti su basamenti di roccia, erano costruite con mattoni di fango e rifinite con intonaco colorato e stucchi, mentre i tetti erano sorretti da colonne di marmo a flauto con capitelli. Il suo periodo di maggior fulgore va dal I° sec. a.C. al IV° d.C.
La cittadella berbera medievale occupa invece il settore occidentale: presenta ancora abbastanza evidenti i segni di una fortezza e quelli di due moschee senza minareti. Altri resti significativi sono il mausoleo romano, l'unico sopravvissuto di cinque, situato sotto la rupe di Zanchecra e databile all'epoca di Domiziano, e la vicina restaurata necropoli monumentale di Hatya o cimitero reale, dove alcune tombe a piramide alte 4 metri e con ricchi corredi databili dal I° al VI° sec. hanno certamente ospitato personaggi assai importanti, probabilmente re.
Recenti scavi italiani consentono ora di ammirare anche un villaggio rurale del III-I° sec. a.C. nell'oasi di Fahwet, 10 chilometri ad ovest di Ghat, e la bella fortezza del I-IV° sec. d.C. di Aghram Nadharif, nell'oasi di Barkat 8 chilometri a sud di Ghat, posta su uno sperone di roccia a presidiare il traffico carovaniero tra l'Acacus e il Tassili. La stessa Ghat, l'unica capitale stanziale dei Tuareg, fu fondata dai Garamanti nel I° sec. d.C., ma purtroppo di quell'epoca non rimane alcuna testimonianza. Da non perdere infine la visita ai tanti reperti conservati nell'interessante museo di Germa, a brevissima distanza da Garama.
A cura di Anna Maria Arnesano e Giulio Badini
Attorno alla metà del V° secolo a.C. il geografo greco Erodoto, parlando delle popolazioni del nord Africa, accenna per primo all'esistenza dei Garamanti. In poche righe informa che coltivavano con l'aratro dopo aver cosparso di terra fertile il sottostante terreno salato, che i loro buoi pascolavano a ritroso per non conficcare nel suolo le lunghe corna e che a bordo di carri trainati da quattro cavalli cacciavano gli Etiopi trogloditi, gli uomini più veloci nella corsa. Successivamente altri storici latini si occuperanno a più riprese dei Garamanti, per l'importante ruolo politico, militare ed economico svolto da questo popolo nel centro del nord Africa per oltre un millennio a cavallo dell'era cristiana.
In estrema sintesi essi diedero vita al primo stato unitario sahariano, o quanto meno ad una potenza regionale, con cui dovettero confrontarsi anche i Romani, e furono gli inventori e i grandi propulsori dell'antico commercio transahariano tra l'Africa nera e il Mediterraneo, aprendo le prime vie carovaniere ancora nella protostoria, oltre ad essere i predecessori degli attuali Tuareg, i mitici uomini blu del deserto. Inoltre la loro capitale, Garama, primo segno di civiltà urbana nel deserto, costituì il punto più meridionale di presenza stabile dei Romani in Africa, ben oltre il vallo del "limes" e la famosa scritta "hic sunt leones" che compariva sulle carte dell'epoca, nonché punto di partenza per l'esplorazione di regioni poste ancora più a sud.
I Garamanti occupavano il Fezzan, la "Phazania romana", l'estrema regione della Libia di sud-ovest al confine con Algeria, Niger e Ciad, erano una popolazione berbera di pelle chiara di provenienza mediorientale (forse palestinese) mischiatasi già in epoca preistorica con elementi neri e meticci locali, ed erano con molta probabilità i discendenti diretti di quei pastori e allevatori neolitici che popolarono il Sahara centrale sei mila anni fa, quando il deserto era ancora verde e ricco di vita, come ci attestano centinaia di migliaia di pitture e di incisioni rupestri sparse ovunque.
Di fronte all'irreversibile mutamento delle condizioni climatiche e all'avanzare dell'aridità, essi si trasferirono, o comunque gravitarono, in una delle pochissime aree rimaste fertili fino ad oggi, la valle dell'uadi el Ajal (oggi chiamata anche al Hayat), una stretta lingua di terra che si inoltra per 200 chilometri verso ovest da Sebha, attuale capoluogo del Fezzan, compressa a nord delle dune del grande erg di Ubari e a sud dalle falesie dell'altipiano roccioso del Messak. Nella preistoria in questa valle scorreva un fiume, ma già 3-4 mila anni fa il corso era sparito, lasciando però una falda freatica a pochi metri dalla superficie, tale da poter consentire la presenza di un'intensa vegetazione.
A circa 150 chilometri da Sebha, nella prima metà del primo millennio a.C. i Garamanti edificarono la loro città più antica (e forse la più vecchia del Sahara), Zinchecra, su uno sperone di roccia del Messak, protetto naturalmente e da ingenti mura ciclopiche. Le minuscole abitazioni erano costruite con mattoni di fango su blocchi di roccia. La scelta di un sito così scomodo e ristretto, ma facilmente difendibile, fa pensare ad una motivata insicurezza, probabilmente a conflitti e razzie. Nel V° sec. a.C. l'accresciuta sicurezza o l'aumento della popolazione portò al progressivo abbandono della rocca e al suo trasferimento nella piana sottostante, creando presso una sorgente la città di Garama, la nuova capitale presso l'odierna Germa, anche se il suo apogeo si avrà soltanto a partire dal I° sec. d.C.
I Garamanti, forse perché spinti dalla necessità, si rivelarono intelligenti e intraprendenti, una delle popolazioni più avanzate dell'epoca. Erano allevatori nomadi di ingenti mandrie di bovini e di cavalli, ottimi agricoltori in grado di coltivare frumento, orzo, datteri, frutta, cotone e ortaggi, discreti artigiani nonostante una tecnologia e attrezzi – almeno inizialmente – preistorici e litici (nel Sahara dopo il neolitico è mancata, come altrove, l'era dei metalli, che furono importati dall'esterno), riuscendo comunque a produrre pregiati gioielli d'oro, di avorio e di pietre dure (tra cui l'amazzonite, un granato chiamato lo smeraldo garamantico, estratta sui monti del Tibesti), e idraulici eccelsi, in grado di creare una fitta rete di canali sotterranei per attingere e convogliare l'acqua, diffusa e ancora oggi utilizzata in tutto il deserto con il nome arabo di foggara, vero capolavoro di ingegneria applicata.
Ma soprattutto seppero volgere in positivo quello che poteva apparire a prima vista un handicap, cioè la loro ubicazione geografica nel cuore del Sahara. Questa posizione mediana, a metà strada tra il Sahel e il Mediterraneo, in una valle che costituiva un punto obbligato di transito verso i quattro punti cardinali, li portò per primi a concepire e ad organizzare – ricavandone notevoli benefici - il commercio transahariano, favoriti anche dal fatto di essere stati i primi ad intuire il potenziale al riguardo di alcune nuove e rivoluzionarie acquisizioni, come l'introduzione del cavallo e del carro prima, e della palma da dattero e del dromedario poi.
Occorreva essere lungimiranti per capire in anticipo quanto potesse essere redditizio far trovare ai commercianti della costa, Fenici prima, Punici, Greci e Romani poi, schiavi neri, oro, pietre preziose, spezie, incenso, ebano, avorio, animali feroci, piume di struzzo, pelli e altro, fornendo in cambio alle popolazione nere sale, tessuti, prodotti e manufatti mediterranei. Non deve quindi meravigliare se arrivarono a gestire in regime di monopolio il commercio nordafricano, gestendo empori, organizzando e guidando carovane, forse anche predandole come avrebbero fatto poi i Tuareg, o imponendo dazi di transito e ad esercitare, mediante apposite fortezze nei punti strategici, un intenso controllo sul territorio.
Le fonti storiche sono abbastanza avare di informazioni, e tutte comunque piuttosto tarde, nei loro riguardi. Non sappiamo ad esempio nulla sulle relazioni politiche con gli empori fenici della costa e con la stessa Cartagine, forse grazie al fatto che a questi non interessava il controllo delle regioni interne. Discorso molto diverso invece con la comparsa dei Romani, con i quali si instaurerà un rapporto costante di amore-odio, di scontro e di collaborazione alterni, fondato comunque sul reciproco tornaconto.
Nonostante vari tentativi al riguardo, i Garamanti, per il loro carattere indomito, non furono mai sottomessi all'impero, al massimo furono partner, come ci testimonia Tacito. Evidentemente verso la fine del I° sec. a.C. cominciarono a minacciare il “limes tripolitanus”, un muro a secco e un fossato con avamposti di guardia lungo ben 500 chilometri che correva attraverso le montagne del Jebel Nafusa, se Plinio il Vecchio ci informa che nel 19 a.C. il proconsole Lucio Cornelio Balbo fu costretto ad organizzare una spedizione punitiva; partendo dalla costa con 20 mila uomini della III° legione Augusta raggiunse “Cydamus”, l'attuale Ghadames, poi “Rapsa”, forse l'attuale Ghat, dove installò la più meridionale delle guarnigioni imperiali a mille chilometri dal Mediterraneo, quindi conquistò Garama. Una notevole impresa di tre mila chilometri di marce forzate attraverso un deserto assolutamente inospitale, da meritargli uno sfarzoso trionfo a Roma.
La tregua fu evidentemente fragile, se dal 17 al 24, sotto Tiberio, fornirono truppe al re numida Tacfarinas che nell'odierna Algeria si era ribellato ai Romani; e alla sconfitta dovettero inviare ambasciatori a Roma per chiedere la pace. Che i Garamanti fossero una potenza regionale lo dimostra anche il fatto che nel 69 si allearono con “Oea”, l'attuale Tripoli, nella guerra contro “Leptis Magna”, alleata dei Romani, e mentre stavano per conquistarla furono debellati dalla legione Augusta del legato Valerio Flacco e inseguiti fino nel Fezzan. Da allora però i rapporti migliorarono e Garama ebbe una presenza costante romana, la più meridionale in Africa, più commerciale che militare.
Le fonti storiche tacciono per lungo tempo, perché al crollo dell'impero romano corrispose anche il declino del regno garamantico. Se ebbero pochi problemi con l'invasione dei Vandali, limitata alla costa, si opposero invece militarmente alla successiva invasione bizantina del 534, dovendo però alla fine accettare un trattato di pace e il cristianesimo nel 569. Ma con la scomparsa romana era cambiato, notevolmente in peggio, il quadro economico, e i Garamanti escono dalla scena della storia nel 655 con la conquista di Garama da parte degli Arabi e l'islamizzazione forzata del Fezzan. Spariti come tali ma non scomparsi del tutto, perché i loro discendenti sopravvissero fino ai giorni nostri nei Tuareg, il popolo dei grandi navigatori del Sahara.
Poco sappiamo sui costumi dei Garamanti, in quanto le ricerche archeologiche sono iniziate da meno di un secolo e anche perché risulta difficile cogliere le inevitabili mutazioni avvenute nel tempo per un popolo vissuto per quasi due millenni. Più che uno stato rigido fu una confederazione di tribù, sparse su un territorio enorme e imprecisato, che si riconosceva in un re e aveva la propria capitale a Garama, primo insediamento urbano sahariano, che non arrivò comunque mai a contare più di quattro mila abitanti.
I pastori nomadi e i commercianti spaziavano su ampi territori, vivendo i primi in capanne mobili trasferibili su carri trainati da buoi, mentre gli agricoltori coltivavano l'intera valle dell'Ajal e altre oasi. Vigeva la regola del deserto di offrire ospitalità a chiunque, per cui finirono per inglobare anche persone poco raccomandabili. Etnicamente erano berberi bianchi mediterranei, ma disponevano sicuramente anche di schiavi e di servi neri e meticci. L'attività carovaniera e commerciale, spaziante dal Mediterraneo al Sahel e dall'Atlantico all'Egitto, doveva garantire una vasta gamma di beni materiali, che affiancavano i poveri strumenti locali di discendenza neolitica come asce, raschiatoi, pestelli e macine in pietra.
Fu il primo popolo sahariano a possedere un alfabeto, il tifinagh libico-berbero di origine fenicio-punica ancora oggi usato dai Tuareg, e l'uso massiccio di cavallo, ruota e palma da dattero dovettero assicurargli grandi benefici economici. Gli uomini vestivano una tunica cortissima di lana o di pelle, svasata all'estremità, e si adornavano i capelli con piume di struzzo; le donne invece portavano una tunica di pelle rossa sfrangiata lunga fino ai piedi, con numerosi gioielli al collo, alle braccia e alle dita, oltre a piume di struzzo nei capelli.
Vigevano costumi alquanto liberi: le donne erano proprietà comune e il loro prestigio aumentava con il numero degli amanti; i bambini erano proprietà della madre fino alla pubertà, quando l'assemblea tribale riunita ne decretava la paternità in base alla somiglianza fisica. La donna godeva di elevato prestigio e vigeva il matriarcato, come presso i Tuareg attuali. Pare non permettessero ai vecchi di vivere oltre i 60 anni, età limite entro la quale dovevano strangolarsi con una corda di bue.
Grande l'attenzione per il culto dei morti: nella valle dell'Ajal gli archeologi sono arrivati a contare 60 mila tombe, la maggior necropoli del Sahara, non tutte ovviamente a loro attribuibili e dei tipi più svariati, mentre tutto il Sahara centrale pullula di tombe collettive garamantiche, fatte di grossi accumuli di sassi. I defunti venivano sepolti in posizione fetale e, nonostante sistematiche depredazioni, parecchie tombe hanno restituito resti di corredi funebri, per la gran parte di importazione anche da luoghi assai lontani, e lastre esterne di pietra con incavi per le offerte e i banchetti funebri.
I carri attribuiti da Erodono, e poi anche da Plutarco, ai Garamanti, formati da bighe leggere per uno-due uomini tirate da quattro cavalli lanciati al galoppo, lasciarono perplessi gli storici per oltre due millenni. Fino a quando, a partire dal 1930, la scoperta dell'arte sahariana non confermò la presenza di centinaia di pitture e di incisioni rupestri, le più antiche databili al 1.200 a.C. le più recenti al 100 d.C. quando compare il dromedario, che ritraevano appunto simili carri.
La loro diffusa presenza nei massicci dell'Acacus libico e del vicino Tassili algerino, cuore del regno garamantico, e la loro distribuzione lungo una linea che da nord-est a sud-ovest arriva fino all'ansa del Niger e alle rive del lago Ciad, ha fatto supporre l'esistenza di una vera e propria Via dei carri, tesi subito invalidata dalla loro presenza in tutto il Sahara centro occidentale. Altri studiosi hanno messo in evidenza come questi carri, tirati da cavalli non ferrati e con scarsa autonomia alimentare e idrica, fossero inadatti agli ampi tratti montuosi e rocciosi del deserto e non utili al trasporto di merci.
La soluzione risiede forse nel fatto che le merci venivano trasportate su carri pesanti trainati da buoi, mentre i carri al galoppo volante, trasportati nei tratti impervi sui carriaggi, potevano invece servire egregiamente nelle zone pianeggianti per le esplorazioni, i contatti tra le carovane, le incursioni predatorie, la guerra e la caccia, compresa anche quella ai veloci Etiopi per procurarsi schiavi. La fantasia degli artisti protostorici rimase ovviamente colpita prevalentemente da questi ultimi, lasciandone ampia testimonianza sulle pareti istoriate.
Oggi Garama si presenta ai turisti come una città fantasma di fango, assai intrigante e ricca di fascino per la sua spettralità, dove si mescolano oltre duemila anni di storia, in quanto fu abitata fino al 1930. Difficile leggere nel generale disfacimento e nelle continue sovrapposizioni i resti delle singole fasi, portati solo in parte in luce da scavi recenti. Della capitale garamantica, cinta da mura ovali con otto torri ed estesa per 50 ettari, rimangono nella piazza centrale le fondamenta dell'abitazione di un ricco mercante, quelle di un tempio dedicato al dio egizio Ammone, altre abitazioni minori e tracce di bagni romani.
Questi edifici denotano una relativa raffinatezza architettonica, con influenze greche e romane: le strutture, poggianti su basamenti di roccia, erano costruite con mattoni di fango e rifinite con intonaco colorato e stucchi, mentre i tetti erano sorretti da colonne di marmo a flauto con capitelli. Il suo periodo di maggior fulgore va dal I° sec. a.C. al IV° d.C.
La cittadella berbera medievale occupa invece il settore occidentale: presenta ancora abbastanza evidenti i segni di una fortezza e quelli di due moschee senza minareti. Altri resti significativi sono il mausoleo romano, l'unico sopravvissuto di cinque, situato sotto la rupe di Zanchecra e databile all'epoca di Domiziano, e la vicina restaurata necropoli monumentale di Hatya o cimitero reale, dove alcune tombe a piramide alte 4 metri e con ricchi corredi databili dal I° al VI° sec. hanno certamente ospitato personaggi assai importanti, probabilmente re.
Recenti scavi italiani consentono ora di ammirare anche un villaggio rurale del III-I° sec. a.C. nell'oasi di Fahwet, 10 chilometri ad ovest di Ghat, e la bella fortezza del I-IV° sec. d.C. di Aghram Nadharif, nell'oasi di Barkat 8 chilometri a sud di Ghat, posta su uno sperone di roccia a presidiare il traffico carovaniero tra l'Acacus e il Tassili. La stessa Ghat, l'unica capitale stanziale dei Tuareg, fu fondata dai Garamanti nel I° sec. d.C., ma purtroppo di quell'epoca non rimane alcuna testimonianza. Da non perdere infine la visita ai tanti reperti conservati nell'interessante museo di Germa, a brevissima distanza da Garama.
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