Libia: Ghadames, oasi nel deserto
Un'antica leggenda narra che Ghadames nacque grazie alla scoperta della sorgente Ain El Fersa da parte dei cavalieri della tribù di Nemrod. Questi uomini, abili conoscitori di deserto, erano soliti fermarsi solo presso i rari punti d'acqua esistenti. Ma, un giorno, durante l'attraversata del deserto libico, mentre sostavano per far riposare i cavalli, una delle giumente colpì il suolo con lo zoccolo e ne scaturì una sorgente di acqua limpida e abbondante che venne chiamata Ain El Fersa, il pozzo della giumenta. Da allora sono passati più di cinquemila anni, anni che segnarono l'inizio della storia e dello sviluppo della città attorno alla sua sorgente.
Testo di Anna Maria Arnesano, foto di Giulio Badini
Cydamus, questo il nome antico dell'odierna Ghadames è situata all'estremo lembo occidentale della Libia, quasi ai confini con Tunisia e Algeria, ed è annoverata tra le più belle e importanti oasi di tutto il Sahara. La sua bellezza deriva, oltre che dal florido palmeto che si insinua dentro all'abitato e a cui si devono i migliori datteri libici, alla peculiarità urbanistica della medina, la città vecchia.
Divisa in sette quartieri ancora racchiusi dalle antiche mura, ognuno autonomo con propri pozzi, piazze, mercati, moschee e madrase raccordati da un labirinto di stradine coperte e non, dove l'ombra e i percorsi tortuosi consentono la circolazione dell'aria fresca ma non quella della sabbia, e dalla singolarità delle sue case, piene di nicchie e armadi a muro, scale incrociate, vetri colorati e specchi per moltiplicare i giochi di luce, con morbide linee armoniche e dipinti naif gialli, verdi e rossi sulla calce bianca a ricoprire interamente le pareti, che tanto impressionarono l'architetto Le Corbusier. Un capolavoro di ingegneria per l'architettura e l'urbanistica, tanto da spingere nel 1986 l'Unesco ad inserirla nel Patrimonio dell'Umanità.
L'importanza si connette invece alla storia ed alla posizione geografica. Già attivo insediamento romano, e prima ancora garamantico, divenne pian piano uno dei principali mercati, il maggiore per gli schiavi, e imprescindibile nodo carovaniero transahariano, prima oasi per quanti dovevano affrontare verso sud le infuocate sabbie del deserto e l'ultima per quanti puntavano ai porti del Mediterraneo, avanti di affrontare le montagne berbere del Jebel Nafusa. Le sue carovane si spingevano ovunque, dal Magreb al Sahara, dal Cairo a Timbuctu. Dall'oasi, già prospera per la produzione agricola e l'allevamento, passava ogni genere di mercanzia, contribuendo ad arricchire una classe di mercanti e carovanieri, mentre l'abbondanza di materie prime forgiò provetti artigiani.
La città era cosmopolita: arabi, berberi, tuareg e schiavi neri, oltre a commercianti provenienti da ogni dove. La ricchezza primigenia era però data dall'acqua, convogliata in mezzo al deserto da una rete inimmaginabile di canali sotterranei, gestita in maniera saggia e democratica. Sulla piazza centrale un condotto con chiuse regolava l'afflusso ai diversi quartieri e ai campi: un corpo di veri e propri magistrati delle acque controllava giorno e notte attraverso un vaso forato usato come clessidra la durata dell'erogazione, annotando mediante nodi su foglie di palma il relativo tempo. Contando i nodi si poteva determinare l'ora esatta. Ma a Ghadames non c'era soltanto il primo orologio pubblico ad acqua del Sahara; qui sorse anche, parecchi secoli fa, un servizio postale ante litteram: erano semplici sacchi di pelle appesi in piazza, dove le carovane in arrivo depositavano le missive raccolte nei paesi attraversati, e quelle in partenza prelevavano le lettere dirette alle località che avrebbero toccato. Forse lento, ma efficace.
La città viveva su due livelli: quello terreno, con le sue strade e piazze, riservato ad uomini ed animali, e quello aereo, appannaggio esclusivo delle donne. Tutte le abitazioni, rigorosamente a tre piani, presentano infatti una terrazza sommitale collegata con ponticelli e scalette alle confinanti, che permettevano alle donne contatti e visite senza mai uscire di casa; e vi si svolgevano pure mercati rosa.
Le fortune, si sa, non durano mai in eterno, e il declino di Ghadames cominciò all'inizio del secolo scorso con la motorizzazione e la fine del grande commercio transahariano, l'abolizione dello schiavismo (l'ultima asta umana si svolse nella piazza del Gelso nel 1914), il mancato arrivo delle materie prime e l'inizio dell'emigrazione; nel 1850 contava 7 mila abitanti, un secolo dopo 1.900.
Tra il 1984 e il 1987 il colonnello Gheddafi ordinò lo sgombero della Medina, trasferendo i residui abitanti nelle più igieniche abitazioni della città nuova. Ma durante l'estate, o in occasione di festività, non sono in pochi a tornare a rifugiarsi nel fresco e nell'intimità della città vecchia e ultimamente, grazie al turismo, alcune abitazioni tornano ad aprirsi a nuova vita, magari per cucinare un cous-cous ai visitatori.
Da vedere in città c'è il museo, ospitato nell'ex forte italiano; i bianchi resti della Casa del Governatore, antico fortino turco; diverse moschee (interdette ai cristiani) tra le quali spiccano sui due lati della centrale piazza del Mercato, rigido confine tra la città araba e quella berbera, la quattrocentesca moschea Yunes e la moschea Al Atiq, eretta addirittura nel 666; lo storico hotel Ain al Faras, costruito in epoca coloniale e trasformato dal governatore della Libia Italo Balbo in propria residenza personale, che nel 1957 ospitò Sofia Loren, John Wayne e Rossano Brazzi, impegnati nel film Timbuctù.
Tuttavia il vero incanto consiste nel perdersi lungo le vie coperte della Medina, che si addentrano come tunnel verso minuscole piazzette inondate di sole, con il bianco della calce e il marrone dei mattoni di fango, gli esuberanti decori geometrici e policromi delle case, l'azzurro del cielo, il verde delle palme e le buie e fresche stradine illuminate ogni tanto da sciabolate di luce, spesso bordate da sedili in pietra che invitano alla sosta, percorse da passi felpati sul pavimento di sabbia: si prova quasi imbarazzo nel profanare questo silenzio spettrale, rotto ogni tanto dall'apparire di un abitante che sembra sbucare dal passato.
La città vecchia si ripopola infatti soltanto una volta all'anno, in autunno, in occasione dei tre giorni del "Festival di Ghadames", l'evento folcloristico più importante della Libia (ma che coinvolge anche Tunisia e Algeria), nato in origine per festeggiare la raccolta dei datteri: i vecchi abitanti in abiti tradizionali tornano ad aprire le case, si celebrano feste e matrimoni, ovunque ci sono manifestazioni, balli, canti e corse di cammelli in gran parata.
Appena fuori meritano una visita i preziosi giardini, in realtà orti dove oltre alla preziosissima palma, che ha fornito per secoli il legname alla città, vengono coltivati frutta e verdura; il villaggio di Tumin (3 km), una Ghadames in piccolo ma ancora abitata; il duplice lago di Mujazin (40 km), uno stupendo bacino d'acqua salata, profondo 80 m e circondato da tamerici, quasi un miraggio in mezzo alle dune capace di regalare singolari immagini cromatiche; un bel fortino, turco prima e italiano poi, non lontano dai laghi; Qasr al-Ghul (15 km), la montagna degli spettri, rovine di una fortezza di epoca preislamica cinto da poderose mura e dal quale si osserva un bel panorama; e infine la vasta distesa di dune verso l'Algeria e la Tunisia, da godere rigorosamente al tramonto, ma anche tutto il deserto circostante, che in parecchi tratti brilla per la presenza di cristalli di gesso che si riflettono al sole.
Divisa in sette quartieri ancora racchiusi dalle antiche mura, ognuno autonomo con propri pozzi, piazze, mercati, moschee e madrase raccordati da un labirinto di stradine coperte e non, dove l'ombra e i percorsi tortuosi consentono la circolazione dell'aria fresca ma non quella della sabbia, e dalla singolarità delle sue case, piene di nicchie e armadi a muro, scale incrociate, vetri colorati e specchi per moltiplicare i giochi di luce, con morbide linee armoniche e dipinti naif gialli, verdi e rossi sulla calce bianca a ricoprire interamente le pareti, che tanto impressionarono l'architetto Le Corbusier. Un capolavoro di ingegneria per l'architettura e l'urbanistica, tanto da spingere nel 1986 l'Unesco ad inserirla nel Patrimonio dell'Umanità.
L'importanza si connette invece alla storia ed alla posizione geografica. Già attivo insediamento romano, e prima ancora garamantico, divenne pian piano uno dei principali mercati, il maggiore per gli schiavi, e imprescindibile nodo carovaniero transahariano, prima oasi per quanti dovevano affrontare verso sud le infuocate sabbie del deserto e l'ultima per quanti puntavano ai porti del Mediterraneo, avanti di affrontare le montagne berbere del Jebel Nafusa. Le sue carovane si spingevano ovunque, dal Magreb al Sahara, dal Cairo a Timbuctu. Dall'oasi, già prospera per la produzione agricola e l'allevamento, passava ogni genere di mercanzia, contribuendo ad arricchire una classe di mercanti e carovanieri, mentre l'abbondanza di materie prime forgiò provetti artigiani.
La città era cosmopolita: arabi, berberi, tuareg e schiavi neri, oltre a commercianti provenienti da ogni dove. La ricchezza primigenia era però data dall'acqua, convogliata in mezzo al deserto da una rete inimmaginabile di canali sotterranei, gestita in maniera saggia e democratica. Sulla piazza centrale un condotto con chiuse regolava l'afflusso ai diversi quartieri e ai campi: un corpo di veri e propri magistrati delle acque controllava giorno e notte attraverso un vaso forato usato come clessidra la durata dell'erogazione, annotando mediante nodi su foglie di palma il relativo tempo. Contando i nodi si poteva determinare l'ora esatta. Ma a Ghadames non c'era soltanto il primo orologio pubblico ad acqua del Sahara; qui sorse anche, parecchi secoli fa, un servizio postale ante litteram: erano semplici sacchi di pelle appesi in piazza, dove le carovane in arrivo depositavano le missive raccolte nei paesi attraversati, e quelle in partenza prelevavano le lettere dirette alle località che avrebbero toccato. Forse lento, ma efficace.
La città viveva su due livelli: quello terreno, con le sue strade e piazze, riservato ad uomini ed animali, e quello aereo, appannaggio esclusivo delle donne. Tutte le abitazioni, rigorosamente a tre piani, presentano infatti una terrazza sommitale collegata con ponticelli e scalette alle confinanti, che permettevano alle donne contatti e visite senza mai uscire di casa; e vi si svolgevano pure mercati rosa.
Le fortune, si sa, non durano mai in eterno, e il declino di Ghadames cominciò all'inizio del secolo scorso con la motorizzazione e la fine del grande commercio transahariano, l'abolizione dello schiavismo (l'ultima asta umana si svolse nella piazza del Gelso nel 1914), il mancato arrivo delle materie prime e l'inizio dell'emigrazione; nel 1850 contava 7 mila abitanti, un secolo dopo 1.900.
Tra il 1984 e il 1987 il colonnello Gheddafi ordinò lo sgombero della Medina, trasferendo i residui abitanti nelle più igieniche abitazioni della città nuova. Ma durante l'estate, o in occasione di festività, non sono in pochi a tornare a rifugiarsi nel fresco e nell'intimità della città vecchia e ultimamente, grazie al turismo, alcune abitazioni tornano ad aprirsi a nuova vita, magari per cucinare un cous-cous ai visitatori.
Da vedere in città c'è il museo, ospitato nell'ex forte italiano; i bianchi resti della Casa del Governatore, antico fortino turco; diverse moschee (interdette ai cristiani) tra le quali spiccano sui due lati della centrale piazza del Mercato, rigido confine tra la città araba e quella berbera, la quattrocentesca moschea Yunes e la moschea Al Atiq, eretta addirittura nel 666; lo storico hotel Ain al Faras, costruito in epoca coloniale e trasformato dal governatore della Libia Italo Balbo in propria residenza personale, che nel 1957 ospitò Sofia Loren, John Wayne e Rossano Brazzi, impegnati nel film Timbuctù.
Tuttavia il vero incanto consiste nel perdersi lungo le vie coperte della Medina, che si addentrano come tunnel verso minuscole piazzette inondate di sole, con il bianco della calce e il marrone dei mattoni di fango, gli esuberanti decori geometrici e policromi delle case, l'azzurro del cielo, il verde delle palme e le buie e fresche stradine illuminate ogni tanto da sciabolate di luce, spesso bordate da sedili in pietra che invitano alla sosta, percorse da passi felpati sul pavimento di sabbia: si prova quasi imbarazzo nel profanare questo silenzio spettrale, rotto ogni tanto dall'apparire di un abitante che sembra sbucare dal passato.
La città vecchia si ripopola infatti soltanto una volta all'anno, in autunno, in occasione dei tre giorni del "Festival di Ghadames", l'evento folcloristico più importante della Libia (ma che coinvolge anche Tunisia e Algeria), nato in origine per festeggiare la raccolta dei datteri: i vecchi abitanti in abiti tradizionali tornano ad aprire le case, si celebrano feste e matrimoni, ovunque ci sono manifestazioni, balli, canti e corse di cammelli in gran parata.
Appena fuori meritano una visita i preziosi giardini, in realtà orti dove oltre alla preziosissima palma, che ha fornito per secoli il legname alla città, vengono coltivati frutta e verdura; il villaggio di Tumin (3 km), una Ghadames in piccolo ma ancora abitata; il duplice lago di Mujazin (40 km), uno stupendo bacino d'acqua salata, profondo 80 m e circondato da tamerici, quasi un miraggio in mezzo alle dune capace di regalare singolari immagini cromatiche; un bel fortino, turco prima e italiano poi, non lontano dai laghi; Qasr al-Ghul (15 km), la montagna degli spettri, rovine di una fortezza di epoca preislamica cinto da poderose mura e dal quale si osserva un bel panorama; e infine la vasta distesa di dune verso l'Algeria e la Tunisia, da godere rigorosamente al tramonto, ma anche tutto il deserto circostante, che in parecchi tratti brilla per la presenza di cristalli di gesso che si riflettono al sole.