India: il Ladakh
Il Paese dei monti ruggenti, piccolo Tibet indiano, ultimo Shangri-la (orizzonte perduto). Sono vari e tutti suggestivi i nomi con cui è possibile evocare il Ladakh, estrema regione settentrionale dell'India che segna il confine tra le vette dell'Himalaya occidentale e il vasto altopiano tibetano. Comunque lo si voglia chiamare, una cosa è certa. Il Ladakh è uno dei territori più remoti dell'India tanto da non sembrare nemmeno India, una sorta di regno ancestrale dove sopravvive una spiritualità legata alla natura che precede qualsiasi codificazione religiosa successiva, tanto che qui si sente ancora parlare (e non solo parlare) di buddismo tantrico.
Testo e foto a cura della redazione
E' anche una delle regioni più spettacolari dell'India, adagiata lungo l'alto corso del fiume Indo e dominata da imponenti montagne che ne scandiscono continuamente l'orizzonte, a un'altitudine che oscilla tra i 3600 e i 3800 metri. Gli scenari che si susseguono percorrendo le strade impervie appena ci si allontana dai centri abitati più affollati (la capitale Leh su tutti), sono quelli immensi che si potrebbero respirare in pieno deserto ma con la presenza onnipresente di massicci rocciosi con la loro aura sacrale. La montagna, infatti, è il simbolo sacro per eccellenza per la civiltà indù e per il tantrismo in particolare. Regina e ricettacolo del sacro per eccellenza è la catena himalayana che, nella mitologia indù, diventa Himavat “la dimora delle nevi” ma anche la montagna sacra a Shiva, la divinità maschile centrale dell'iconografia tantrica.
Una terra così intrisa di fede nel Divino che alberga nella natura e di cui anzi la natura è simbolo e suggello, non può che disegnare agli occhi del visitatore una sorta di geografia mistica che abbaglia e che piega anche i più scettici a profonde meditazioni. Ci si ritrova, infatti, a viaggiare come dentro un grande mandala, una cosmografia cioè che riflette l'ordinamento divino, invaso da una simbologia creata al tempo stesso dalla natura e dall'uomo. La valle dell'Indo è di per sé il simbolo della femminilità (yoni) e della dea tantrica per eccellenza Shakti, venerata soprattutto nello shaktismo, una forma di Tantrismo induista in Ladakh ancora presente.
Le cime delle montagne, viceversa, sono simboli fallici al pari dei numerosi linga sparpagliati nei luoghi più improbabili, stalattiti di pietra che la natura ha plasmato, chiamati appunto Shiva linga (il sesso di Shiva). La coppia yoni-linga è l'emblema dell'unità degli opposti e di quella completezza estatica del “due in uno” che sottostà a tutta la concezione tantrica (e che è stata purtroppo inficiata da non pochi fraintendimenti perpetuati da frettolose interpretazioni da parte della cultura occidentale).
La capitale Leh, a quota 3500 metri, accoglie tra le sue montagne un micromondo colorato fatto di bazar, mercati, stradine invase da monaci e militari, edifici sacri (stupa e gompa) e bugigattoli dove ancora gli oracoli svolgono indisturbati le loro pratiche di guarigione. Salendo verso il Castle At Tsemo, si tocca con mano la facilità con cui questi luoghi invitano a riflettere, tanto la natura appare folgorante. I luoghi sacri sono tutti protesi verso il cielo, si dispiegano in altezza, arroccati sulle montagne sacre, in punti spesso angusti da raggiungere perché faticosa deve essere la strada dell'uomo verso la sua rinascita.
La montagna è anche questo, simbolo di sforzo e di raccoglimento interiore. Una miriade di bandierine colorate che urlano al vento i mantra (le preghiere), accompagna il cammino dei viandanti lungo queste scalate verso l'alto. In cima al castello si gode di un panorama entusiasmante sulla città, un ammasso di casette che si dispiega in un disordine quasi precostituito anch'esso, in cui spicca il quadrilatero del campo per il gioco del polo. Lungo la strada un cartello giallo ammonisce con queste parole: “la strada indica che ci sono segni di vita, il sangue di ognuno ha lo stesso valore, amatevi l'un l'altro”.
Altro luogo sacro di Leh è quello dove si trova la Shanti stupa (il Santuario della Pace), un colosso bianco circolare che svetta attorniato dalle solite generose montagne. Lungo il percorso che sale fino alla stupa si incontra un tempietto buddista che vale la pena visitare; un monaco è impegnato a suonare un grande gong a forma di botte, mentre ripete la litania dei mantra ad alta voce.
All'interno spicca la statua in oro di Buddha circondata da tutti gli oggetti rituali possibili e immaginabili, in uno sfavillio di colori e simboli che inizialmente può lasciare perplessi. Ma è bene precisare che la fantasmagoria policroma in cui ci si ritrova varcando la soglia di qualsiasi santuario o monastero tibetano non è, e non vuole essere, la rappresentazione di un olimpo orgiastico come a prima vista può apparire. Il senso di queste visioni estatiche e della centralità del Buddha in tutte le sue infinite manifestazioni sta nel suo contrario, e cioè nel voler esorcizzare tutte queste divinità al fine di dimostrare la loro assoluta inesistenza come creazioni del subconscio o infinita serie di forze che non ha altra realtà all'infuori della nostra immaginazione.
Questa è la maggiore differenza che la forma tantrica del buddismo (altrimenti detto vajraiana o himalayano) mantiene rispetto al buddismo storico il quale ammette un dio personale, il Buddha. Il tantrismo ammette non uno, ma tanti dei e solo alla stregua di forze attraverso le quali giungere alla completa padronanza della propria esistenza “illuminata”, libera cioè da qualsiasi condizionamento, divinità incluse. Perché, in ultimo, la forza è dentro di noi.
Da Leh un'escursione imperdibile è quella che porta a Lamayuru, inverosimile villaggio ai piedi della valle dell'Indo famoso per il suo monastero Yung-Drung. Inverosimile perché sembra di trovarsi dentro a un presepe tibetano dove la presenza di forze che animano la natura diventa tangibile. Sarà anche per la posizione strategica, di fronte a quella “valle della Luna” che risplende di color oro, ennesimo spettacolo cromatico di giganti di pietra che plasmano le più improbabili forme.
Il santuario sorge proprio al cospetto di questa valle e si è sviluppato attorno alla grotta dove usava meditare Naropa (1016-1100 circa), grande yogin della tradizione tantrica a cui si deve la stesura del testo base del buddismo tantrico, il Kalacakra Tantra, e ideatore dei famosi Sei Yoga (gli yoga del Calore, del Corpo Illusorio, del Sogno, della Luce, del Bardo e della Trasmigrazione). All'interno del santuario è ancora possibile vedere la grotta originaria dentro la quale sono state edificate le statue dei tre maggiori rappresentanti del lignaggio marpa-kagyu: Tilopa (988-1069 circa), Naropa (1016-1100 circa) e Milarepa (1040-1123 circa).
In questo luogo sospeso nel tempo non è difficile assorbire la visione mitica tramandata dalla religione naturale del tantrismo. Il silenzio espande nel vento i canti che echeggiano in lontananza e le preghiere suonate dalle ruote dei mantra (altro oggetto rituale che si trova sia in versione “portatile” che fissa, e va fatto girare in senso antiorario per la tradizione buddista, orario per quella legata all'antica religione sciamanica dei Bon). Bisogna ringraziare proprio l'appartenenza di questi luoghi sacri al territorio indiano se essi sono stati preservati dalle innumerevoli razzie che, invece, sono toccate in sorte ai santuari e monasteri tibetani, durante la repressione cinese. Per questo il Ladakh è una sorta di gioiello che splende di luce propria, restituendo della mitologia tibetana i tratti più originari ed esoterici, appunto tantrici.
Affrontare il mistero durante un viaggio di questo tipo può voler dire archiviare qualsiasi ordine mentale precostituito perché da queste parti l'unica realtà che conta è la potenza di natura che agisce dentro di noi. Senza spazio e senza tempo. A tal proposito, le parole di un grande viaggiatore, appassionato del Tibet e grande esperto di questi luoghi, ci sembrano la più bella conclusione: “Noi corriamo che ci manca il fiato. Essi hanno il tempo per dimenticare il tempo: che è il segreto per vivere ancora con se stessi”. (Giuseppe Tucci).
Una terra così intrisa di fede nel Divino che alberga nella natura e di cui anzi la natura è simbolo e suggello, non può che disegnare agli occhi del visitatore una sorta di geografia mistica che abbaglia e che piega anche i più scettici a profonde meditazioni. Ci si ritrova, infatti, a viaggiare come dentro un grande mandala, una cosmografia cioè che riflette l'ordinamento divino, invaso da una simbologia creata al tempo stesso dalla natura e dall'uomo. La valle dell'Indo è di per sé il simbolo della femminilità (yoni) e della dea tantrica per eccellenza Shakti, venerata soprattutto nello shaktismo, una forma di Tantrismo induista in Ladakh ancora presente.
Le cime delle montagne, viceversa, sono simboli fallici al pari dei numerosi linga sparpagliati nei luoghi più improbabili, stalattiti di pietra che la natura ha plasmato, chiamati appunto Shiva linga (il sesso di Shiva). La coppia yoni-linga è l'emblema dell'unità degli opposti e di quella completezza estatica del “due in uno” che sottostà a tutta la concezione tantrica (e che è stata purtroppo inficiata da non pochi fraintendimenti perpetuati da frettolose interpretazioni da parte della cultura occidentale).
La capitale Leh, a quota 3500 metri, accoglie tra le sue montagne un micromondo colorato fatto di bazar, mercati, stradine invase da monaci e militari, edifici sacri (stupa e gompa) e bugigattoli dove ancora gli oracoli svolgono indisturbati le loro pratiche di guarigione. Salendo verso il Castle At Tsemo, si tocca con mano la facilità con cui questi luoghi invitano a riflettere, tanto la natura appare folgorante. I luoghi sacri sono tutti protesi verso il cielo, si dispiegano in altezza, arroccati sulle montagne sacre, in punti spesso angusti da raggiungere perché faticosa deve essere la strada dell'uomo verso la sua rinascita.
La montagna è anche questo, simbolo di sforzo e di raccoglimento interiore. Una miriade di bandierine colorate che urlano al vento i mantra (le preghiere), accompagna il cammino dei viandanti lungo queste scalate verso l'alto. In cima al castello si gode di un panorama entusiasmante sulla città, un ammasso di casette che si dispiega in un disordine quasi precostituito anch'esso, in cui spicca il quadrilatero del campo per il gioco del polo. Lungo la strada un cartello giallo ammonisce con queste parole: “la strada indica che ci sono segni di vita, il sangue di ognuno ha lo stesso valore, amatevi l'un l'altro”.
Altro luogo sacro di Leh è quello dove si trova la Shanti stupa (il Santuario della Pace), un colosso bianco circolare che svetta attorniato dalle solite generose montagne. Lungo il percorso che sale fino alla stupa si incontra un tempietto buddista che vale la pena visitare; un monaco è impegnato a suonare un grande gong a forma di botte, mentre ripete la litania dei mantra ad alta voce.
All'interno spicca la statua in oro di Buddha circondata da tutti gli oggetti rituali possibili e immaginabili, in uno sfavillio di colori e simboli che inizialmente può lasciare perplessi. Ma è bene precisare che la fantasmagoria policroma in cui ci si ritrova varcando la soglia di qualsiasi santuario o monastero tibetano non è, e non vuole essere, la rappresentazione di un olimpo orgiastico come a prima vista può apparire. Il senso di queste visioni estatiche e della centralità del Buddha in tutte le sue infinite manifestazioni sta nel suo contrario, e cioè nel voler esorcizzare tutte queste divinità al fine di dimostrare la loro assoluta inesistenza come creazioni del subconscio o infinita serie di forze che non ha altra realtà all'infuori della nostra immaginazione.
Questa è la maggiore differenza che la forma tantrica del buddismo (altrimenti detto vajraiana o himalayano) mantiene rispetto al buddismo storico il quale ammette un dio personale, il Buddha. Il tantrismo ammette non uno, ma tanti dei e solo alla stregua di forze attraverso le quali giungere alla completa padronanza della propria esistenza “illuminata”, libera cioè da qualsiasi condizionamento, divinità incluse. Perché, in ultimo, la forza è dentro di noi.
Da Leh un'escursione imperdibile è quella che porta a Lamayuru, inverosimile villaggio ai piedi della valle dell'Indo famoso per il suo monastero Yung-Drung. Inverosimile perché sembra di trovarsi dentro a un presepe tibetano dove la presenza di forze che animano la natura diventa tangibile. Sarà anche per la posizione strategica, di fronte a quella “valle della Luna” che risplende di color oro, ennesimo spettacolo cromatico di giganti di pietra che plasmano le più improbabili forme.
Il santuario sorge proprio al cospetto di questa valle e si è sviluppato attorno alla grotta dove usava meditare Naropa (1016-1100 circa), grande yogin della tradizione tantrica a cui si deve la stesura del testo base del buddismo tantrico, il Kalacakra Tantra, e ideatore dei famosi Sei Yoga (gli yoga del Calore, del Corpo Illusorio, del Sogno, della Luce, del Bardo e della Trasmigrazione). All'interno del santuario è ancora possibile vedere la grotta originaria dentro la quale sono state edificate le statue dei tre maggiori rappresentanti del lignaggio marpa-kagyu: Tilopa (988-1069 circa), Naropa (1016-1100 circa) e Milarepa (1040-1123 circa).
In questo luogo sospeso nel tempo non è difficile assorbire la visione mitica tramandata dalla religione naturale del tantrismo. Il silenzio espande nel vento i canti che echeggiano in lontananza e le preghiere suonate dalle ruote dei mantra (altro oggetto rituale che si trova sia in versione “portatile” che fissa, e va fatto girare in senso antiorario per la tradizione buddista, orario per quella legata all'antica religione sciamanica dei Bon). Bisogna ringraziare proprio l'appartenenza di questi luoghi sacri al territorio indiano se essi sono stati preservati dalle innumerevoli razzie che, invece, sono toccate in sorte ai santuari e monasteri tibetani, durante la repressione cinese. Per questo il Ladakh è una sorta di gioiello che splende di luce propria, restituendo della mitologia tibetana i tratti più originari ed esoterici, appunto tantrici.
Affrontare il mistero durante un viaggio di questo tipo può voler dire archiviare qualsiasi ordine mentale precostituito perché da queste parti l'unica realtà che conta è la potenza di natura che agisce dentro di noi. Senza spazio e senza tempo. A tal proposito, le parole di un grande viaggiatore, appassionato del Tibet e grande esperto di questi luoghi, ci sembrano la più bella conclusione: “Noi corriamo che ci manca il fiato. Essi hanno il tempo per dimenticare il tempo: che è il segreto per vivere ancora con se stessi”. (Giuseppe Tucci).
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