Toscana: la provincia di Arezzo
La provincia di Arezzo - quella parte di Toscana, tra Romagna, Marche e Umbria, profondamente incisa dai suoi grandi fiumi, il Tevere e l’Arno - è un territorio in cui si intrecciano le strade dell’uomo: la via della Storia, quella dell’Arte e la via della Fede.
Testo e foto di Cristiano Pinotti
Siamo in Alta Val Tiberina, ad Anghiari. È il 29 giugno 1440. L’esercito di Firenze, capitanato da Gianpaolo Orsini, sconfigge le truppe del ducato di Milano al comando di Niccolò Piccinino. È la fine delle mire espansionistiche viscontee in terra di Toscana e il consolidamento del dominio di Firenze su tutto l’aretino. Arezzo, dopo le fortune vissute durante il Duecento come libero comune è, durante il XV-XVI secolo, una cittadina che non raggiunge i 5.000 abitanti.
Casentino, Piana di Campaldino. È l’11 giugno 1289. I ghibellini di Arezzo sono sconfitti dalle truppe fiorentine, rafforzate da contingenti guelfi di altre città toscane. Una grande (per le proporzioni dell’epoca) battaglia campale, che vendicava la sonora sconfitta dei guelfi fiorentini subita a Montaperti, il 4 settembre 1260.
Casentino, Poppi. Su un’isolata altura sorge il Castello dei Conti Guidi. Grandioso, ma raccolto, complesso che domina l’intera vallata sottostante e l’Appennino, dal Falterona al Monte Penna. Sul Pratello, l’antica piazza d’armi, l’austero profilo dantesco sottolinea il profondo legame tra il poeta e i Guidi, feudatari delle terre circostanti. Un complesso magnifico, austero ed elegante. Il cortile interno, completamente ornato di stemmi, è preludio a ballatoi in legno, a una splendida scala che porta al primo piano, sede della Biblioteca Rilliana, ai capolavori che trovano il loro punto più alto nel ciclo di affreschi di Taddeo Gaddi, conservati nella cappella. Il castello ospita la mostra permanente sulla battaglia di Campaldino. Tre momenti che esemplificano la storia di questo lembo di Toscana, tre località che hanno segnato le vicende del basso medioevo e del primo rinascimento e che, dopo secoli, hanno lasciato tangibili testimonianze di un passato glorioso.
L’arte, in tutte le sue forme, permea l’intera provincia di Arezzo. Per le sue molteplici e preziose testimonianze: in Valdichiana, le città di Cortona e Castiglion fiorentino; in alta Val Tiberina, Monterchi e Sansepolcro; in Valdarno, San Giovanni Valdarno; e poi ancora la stessa Arezzo, una città che è un autentico scrigno di tesori. Tante occasioni di visita, in cui si possono apprezzare chiese, palazzi, dipinti, strutture architettoniche che riportano al più glorioso periodo dell’arte toscana, i magnifici secoli a cavallo tra medioevo e rinascimento, anni che segnarono in modo indelebile l’intera storia italiana e, quindi, mondiale. Una simile terra, ovviamente, non solo è stata un fertile terreno per gli artisti, ma, e non poteva essere altrimenti, è stata essa stessa culla e palestra per lo sviluppo delle arti plastiche, figurative e letterarie.
La nostra “Via dell’arte” può iniziare a San Giovanni Valdarno, piccola città che affascina con la Basilica di Santa Maria delle Grazie, con il convento di Montecarlo e che ha dato i natali a Masaccio e alla sua breve, ma geniale, attività pittorica. Arezzo è una continua sorpresa: San Francesco con l’eccezionale ciclo di affreschi (Leggenda della Vera Croce) di Piero della Francesca; la Pieve di Santa Maria, meraviglioso esempio di romanico toscano che esplode di bellezza tra le strette vie del centro storico; il maestoso edificio gotico del Duomo; l’irregolare e affascinate Piazza Vasari e i suoi magnifici palazzi… Arezzo è anche la città natale di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, Francesco Petrarca, ma anche di Giorgio Vasari, pittore, universalmente noto per aver scritto una delle prime e più affascinanti biografie dei maggiori artisti italiani.
L’arte di Piero della Francesca risplende invece a Sansepolcro, sua città natale, a pochi passi dall'Umbria, nel cui museo civico sono conservati quattro autentici capolavori: il Polittico della Misericordia, la Crocefissione, la Risurrezione e San Giuliano. Concludiamo il nostro percorso con Caprese, dove, il 6 marzo 1475, è nato il massimo artista dell’intero periodo rinascimentale: Michelangelo. Il castello di Caprese è interamente adibito alla celebrazione del suo più importante figlio e comprende la sua casa natale, di epoca trecentesca.
Il centro Italia è una “culla della Fede”. Le testimonianze sono ovunque grandiose, tanto da lasciare a bocca aperta. Poi ci sono luoghi che non solo stupiscono per la loro estetica, ma ancora oggi, riescono a infondere un tarlo che con le sue minuscole mandibole rode l’anima, insinua dubbi e punti di domanda: l’unico segno di interpunzione che lascia spazio a una riflessione libera, scevra di tutti quei substrati culturali che, negli anni, si vanno sedimentando. Spunti di questo tipo, in terra d’Arezzo, ce ne sono diversi, ma alcuni, per particolari e reconditi significati e per il canto che emanano le pietre, ci sono sembrati più appropriati per la nostra, personalissima “Via della Fede”.
All’estremo sud della provincia, in piena Valdichiana, in aperta campagna, tra Cortona e Foiano della Chiana, sorge la medioevale Abbazia di Farneta. Un tempo potentissimo, del grande complesso monastico, ora non c’è che una chiesa, esternamente piuttosto anonima, ma che nelle sue viscere nasconde una poderosa cripta di chiaro impianto medioevale e che una suggestiva, quanto scarna illuminazione, permette di cogliere in tutto il suo profondo significato religioso.
Ci spostiamo nei pressi di Pratovecchio, per percorrere una piccola strada secondaria e raggiungere la Pieve di Romena, un autentico gioiello della campagna casentinese. Le sue forme riportano al XII secolo con l’abside, particolarmente aggraziato, ingentilito da due bifore e una trifora. L’intero complesso, di poderoso impianto romanico, fu costruito su un precedente edificio triabsidato. Di eccezionale valore i capitelli che sorreggono l’impianto basilicale.
Poco più a nord ecco Camaldoli, piccolo eremo di mistica tensione, avvolto dall’abbraccio degli abeti. Fondato nel 1012 da San Romualdo, riformatore delle regola benedettina, l’eremo è concepibile unicamente collegato alla sua foresta, infatti la ferrea disciplina eremitica era strettamente collegata alla cura e alla crescita degli abeti del bosco. Molte parti dell’eremo non sono visitabili – Camaldoli è un luogo di preghiera e non una località turistica – ma la chiesa del Salvatore, l’Aula capitolare e la cella di San Romualdo (l’unica accessibile), se osservati con il dovuto silenzio, consentono di percepire, almeno in parte, i perché delle scelte monastiche.
Verso l’Umbria, a oltre 1.100 metri d’altitudine, sostiamo su un “crudo sasso intra Tevero e Arno” (Dante, Paradiso, XI, 106): La Verna, un luogo che la severità della lingua dantesca cataloga come aspro e solitario, e dove il Santo di Assisi ricevette l’ultimo sigillo (le Stimmate) della sua sposa, la Povertà. Per capire La Verna, infatti, più che ai dipinti di Giotto, è meglio rifarsi al panegirico che Dante fa pronunciare a San Tommaso, nel suo splendido XI canto del Paradiso. Per raccontare Francesco sono stati versati fiumi di inchiostro, metri di pellicola cinematografica, sono state affrescate intere chiese, ma niente è più efficace delle parole di Dante, di quei 75 versi che ne narrano la vita.
Le pietre de La Verna non parlano, infatti, con la soavità delle terrecotte invetriate di Andrea della Robbia che adornano la Chiesa Maggiore e quella di Santa Maria degli Angeli, ma usano tutta la forza dantesca per diffondere, dopo quasi ottocento anni, un messaggio talmente rivoluzionario da essere esorcizzato a colpi di miracoli. Come il Don Abbondio manzoniano, conviene bighellonare tra i sassi de La Verna, con l’indice della mano destra inserito tra le pagine dell’ultima cantica dantesca e, di volta in volta, leggere una terzina, magari al cospetto di quell’alta croce in semplice legno, che sembra scaturire direttamente da una roccia di duro monte calcareo.
Percorsi importanti sui quali ha vegliato la mano della natura che, specialmente in alcune aree del Casentino, emerge in tutta la sua vitale esplosione. È il caso del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, all’estremo nord della provincia che, sotto il bonario sguardo del Falterona, segna il crinale appenninico con un susseguirsi ininterrotto di foreste di faggi e abeti, primi rappresentanti di una biodiversità unica in tutto l’Appennino settentrionale. All’interno del parco trova spazio la Foresta di Camaldoli.